venerdì 28 maggio 2021

 




Le pievi di campagna e il senso dell’accoglienza e del viaggio


Un giorno si decide, un giro enogastronomico della Valpolicella. Partiamo senza una meta precisa, girovagare in auto, fermarci in qualche cantina, degustare. Mentre ci aggiriamo per questo splendido territorio un lontano campanile attira la mia attenzione. Ci avviciniamo: è la pieve di San Floriano. Internamente si presenta non dissimile a tutte molte chiese già visitate, frutto di restauri e sovrapposizioni più o meno antiche. Ma è all’esterno che la struttura rende al massimo. Una bellissima chiesa in stile romanico impreziosita su uno dei lati lunghi da un bellissimo portico a L. Sulle mura una teoria di materiali di recupero appartenuti a sepolture e strutture di epoca romana, sotto i portici i muri segnati da un fiorire di parti di affresco alternate e sovrapposte a incisioni e scritte di epoche diverse. 

A cosa serve quel grande porticato in una chiesa? In realtà a molte cose. Un luogo riparato dove svolgere attività legate alla chiesa, ma anche dove incontrarsi prima e dopo la messa. Eppure proprio quel luogo riparato, così apparentemente scontato ha avuto un importante ruolo nella vita del passato. Aveva anche la funzione di offrire protezione e riparo ai viandanti, soprattutto in epoca medievale, che percorrevano le strade di campagna. La viabilità medievale era molto intensa e allo stesso tempo lenta. Si viaggiava a piedi o a cavallo e i viaggi potevano durare mesi o anni. Si muovevano soprattutto pellegrini o mercanti, ma anche artigiani, artisti. Questo traffico rese necessario lo sviluppo di una rete di luoghi dove i viaggiatori potessero trovare ricovero. I vari regni organizzarono così poste, i privati aprirono locande; ma la parte del leone in questo senso lo fece la chiesa, grazie alla sua capillare diffusione in tutto l’occidente. Nacquero così ospedali (ospizi), foresterie in abbazie e conventi ed anche le pievi, spesso, furono pensate per garantire un rifugio di fortuna ai viandanti. Ma cos’era una pieve?

Il termine Pieve deriva da PLEBS, popolo, cioè la comunità dei battezzati. Durante il medioevo si intende sia la comunità dei fedeli, sia il distretto territoriale su cui viveva la comunità, ma anche l’edificio ecclesiastico che possedeva il diritto di battesimo e sepoltura, solitamente retto da un sacerdote chiamato PIEVANO.

Che queste unità religiose e amministrative fossero posizionate in luoghi strategici per la viabilità è un fatto intuitivo, ma osservate bene le loro mura.
Conservano spesso memoria di una storia che le precede. Inglobano materiali di recupero di epoche più antiche, provenienti da monumenti funerari di epoca romana, capitelli di antichi templi. Così se è vero che la viabilità medievale ricalcava quasi interamente la viabilità romana (anzi, in realtà utilizzava proprio quella), i punti di sosta strategici dovevano necessariamente essere simili. Un viandante sorpreso dal maltempo o dalla notte, seguendo la vista del campanile poteva contare almeno su un luogo riparato nel quale riposare. Un utilizzo che continuerà ancora per molto tempo, simbolo di un mondo lontano dal nostro comune modo di pensare. Un mondo dove l’ospitalità aveva un ruolo sacro ed era un fatto quotidiani nella vita delle persone. Un mondo in cui mettersi in viaggio significava sempre iniziare un’avventura e dove spesso ci si incamminava senza sapere esattamente dove ci si sarebbe fermati, in che condizioni, sotto quale tetto. Così, mentre guardo questo portico da turista moderno, pronto a recarmi a pranzo in una azienda vinicola di pregio, rivedo le centinaia di persone, viandanti e commercianti che sotto quel portico hanno trovato rifugio per una notte. Conforto dopo un viaggio spossante sotto il sole che brucia o la pioggia. Penso alle loro avventure, ma anche alle disavventure. Penso che in fondo dovremmo essere un po' più liberi di osare, che ci hanno insegnato a programmare, ad andare sul sicuro. Vivere nella comodità. Forse a volte dovremmo solo partire senza sapere dove dormiremo la notte successiva.

lunedì 24 maggio 2021

 




La voragine Giacominerloch, le anguane, la terra e l’acqua


Un territorio nasconde sempre luoghi segreti e suggestivi che rimangono fuori dalle mete più frequentate e famose. Questo perché poco pubblicizzati, o marginali,difficili da raggiungere o magari un po' pericolosi. Questa è un’ode a questi luoghi, perché spesso custodiscono una storia o delle storie che rimangono nella memoria delle persone del luogo, magari solo degli anziani. Posti suggestivi conosciuti agli esperti o a una minoranza di persone. E’ il caso del Giacominerloch, sull’Altopiano di Asiago. Scoperto per caso, invisibile ai grandi flussi turistici è una profondissima cavità carsica che si sviluppa per circa 600 metri nelle viscere della terra. Conosciuto soprattutto da gruppi speleologici ed esplorato ufficialmente a partire dal 1936 ad opera del Gruppo Grotte del CAI di Vicenza, lo sprofondo è giustamente poco pubblicizzato perché, ovviamente, pericoloso. Ne ho sentito parlare da amici, l’ho visitato, mi sono incuriosito e ho avuto modo di trovare almeno due antiche leggende che aleggiano sullo sprofondo. Due storie simili, una più complessa, una più semplice.

Nella versione più immediata si narra che visitando il Giacominerloch all’alba si può scorgere una ragazza, metà umana e metà Anguana che ogni notte esce dalle viscere della terra, per poi essere costretta a rientrare nella voragine al canto del gallo. In quella più complessa si narra la vicenda di un tempo senza tempo. I viandanti che percorrevano la strada di Cesuna udivano strani lamenti di donna. Nessuno aveva il coraggio di scoprire di chi fossero. Già nessuno, tranne l’impavido boscaiolo Josel. E’ lui che una notte di luna piena, di ritorno dalla festa di S. Marco segue la voce e si ritrova sul bordo della profonda voragine. Si distende e chiede “chi sei?”. La voce lontana risponde. Si chiama Giacomina e proviene dal regno dei laghi e delle grotte; il suo unico desiderio è di rivedere l’Altopiano. Il nostro eroe non perde tempo e cala una corda. La ragazza sale, ha la pelle d’argento e i capelli verdi, ma l’incanto dura poco, al primo canto del gallo scompare, risucchiata di nuovo nell’orrido. Josel non si perde d’animo, si cala nella voragine ritrovandosi su una spiaggia, in un mondo sotterraneo fatto di laghi e fiumi. Qui ritrova Giacomina che gli narra la sua storia. Furono gli elfi a rapirla, per vendetta contro suo padre, valente boscaiolo che aveva abbattuto gran parte della foresta di Cesuna costringendo gli elfi a fuggire sotto terra. Ora il suo aspetto tradisce il suo destino, si sta trasformando in un’anguana. Quindi come fuggire? I due attendono la primavera e lo scioglimento della neve che scrosciando nel sottosuolo li trasporta fuori. Josel blocca i piedi di Giacomina con fango e alghe per impedire che venga trascinata indietro. Sono salvi, ma si accorgono di essere finiti in Val D’Astico, ai piedi dell’Altopiano. Quando risalgono verso Canove tutto è cambiato. Sono cambiati sentieri in strade, i boschi in pascoli, le persone hanno volti sconosciuti. Il tempo là sotto è relativo e cammina a passo molto più lento che in superficie, chissà quanto tempo i due hanno passato nel regno sotterraneo delle acque.

Le due storie hanno alcuni punti in comune: la voragine, innanzi tutto, l’alba e il fatto che la ragazza sia mezza anguana. Ma cosa sono quindi le anguane? Si tratta di creature della mitologia alpina e prealpina, bellissime di aspetto, con la pelle chiara come la luna e i capelli variamente colorati. La loro natura le fa risalire a ninfe delle fonti alpestri, vivono in luoghi nascosti, nel fondo di valli strette e scure, dove dalle rocce sgorgano sorgenti. All’alba si rifugiano all’interno di umide caverne ed escono solo di notte. Il loro canto melodioso ha la capacità di stregare gli uomini, trascinandoli nei gorghi dei torrenti facendoli annegare. Una particolarità di grande suggestione è la convinzione antica che i loro occhi fissassero le persone dal fondo delle pozze.

In queste storie si rintracciano tutte le caratteristiche peculiari di un archetipo antico. L’acqua fonte di vita, ma strettamente legata al sottosuolo, all’oscurità. Le profonde voragini e le caverne viste come accessi privilegiati al mondo sotterraneo, sempre precluso o pericoloso per gli uomini. L’esistenza stessa di queste figuri femminili ci riporta a tempi remoti e si ricollega alla figura della Signora degli Animali, madre morale di tutte le ninfe, in parte riecheggiata dalla figura spiccatamente italica di Diana, protettrice del parto, delle fonti e di tutto ciò che di vitale esce alla luce dall’oscurità della terra.

L’abisso, quindi diviene il collegamento naturale con un mondo ctonio carico di energie, quindi pericoloso ed incomprensibile. Ogni grotta o voragine (loch, in cimbro, cioè “buco”) ha ereditato dal passato una dote di leggende ed un alone di magia, quale luogo prediletto per incontrare potenze superiori, esseri sovrannaturali. E’ così per il Tanzerloch, la Stonhaus e molti altri, compreso il Giacominerloch (buco di Giacomina), con il suo carico di mistero che ancora oggi conserva, nonostante le numerose esplorazioni.