martedì 28 gennaio 2020







Nella Foresta Pluviale - [Australia]

L’unico modo di attraversare il Deintree River, punto di accesso alla regione, è un traghetto per automobili. Qui giungiamo di sera tardi a bordo dell’autovettura noleggiata il giorno prima; piove e siamo stanchissimi per gli spostamenti aerei e l’avventura passata su Lady Musgrave. Attraverso la fitta umidità dell’aria intravedo delle luci posteriori poco avanti, ci accodiamo. Nell’oscurità totale avvertiamo un rumore poco distante, una cerata arancione staziona fuori dal finestrino. A vestire la sgargiante divisa è, come in ogni film dell’orrore che si rispetti, un tipo strano, alto, allampanato, magro con i tratti scavati, capelli biondo paglia. Biascica qualcosa, poi allunga un foglio nell’abitacolo. E’ l’uomo del traghetto e viene a chiedere il pedaggio. Chissà perché penso istintivamente a Caronte. Capisce che siamo stranieri, ci chiede di attendere e poco dopo torna con un foglietto in mano: è una mappa del Deintree National Park; su due piedi trovo strana quella premura. Sarà la nostra salvezza. In tutta l’area tra il Deintree River e Capo York non c’è corrente elettrica, non ci sono fognature, non c’è campo per i cellulari, ma solo una distesa prepotente di foresta pluviale primaria, probabilmente la più antica d’Australia, interrotta qui e là da qualche villaggio e pochi insediamenti. Senza quella mappa, di notte con la pioggia non avremmo mai trovato il capanno ai margini della foresta che ci ha ospitato.
Siamo qui per immergerci in questa foresta primordiale, enorme e viva. Con pulsante meraviglia ci avviciniamo alla pulsante essenza di questo immenso essere vivente. Il sentiero Jindalba si biforca quasi subito; da una parte una comoda passeggiata su una passerella di legno, dall’altra andiamo noi, per un sentiero appena tracciato che si immerge per un’ora e mezzo di cammino nel cuore della vegetazione. Avanziamo estasiati sotto una volta  ad arcate altissima di verde smeraldo, di una lucentezza così vivida da sembrare innaturale, sotto di noi si stende un pavimento di radici intrecciate. L’ormai consueto concerto di uccelli tropicali ci segue durante il tragitto. Incontriamo un gran numero di tacchini selvatici dal corpo nero e capo rosso, incuranti del nostro passaggio e per nulla spaventati dalla nostra presenza. Mentre commentiamo il tripudio di vita che ci gira intorno, una sagoma nera attraversa a tutta velocità il sentiero a due metri da noi, troppo rapido per poterlo mettere a fuoco. Ne cogliamo solamente le scure setole con la coda dell’occhio ed un sommesso grugnito: un maiale selvatico. Le piante assumono forme di enormi ombrelli. Oltrepassiamo numerosi torrenti in secca che la stagione delle piogge si è lasciata alle spalle, come segni del recente passaggio. Giganteschi tronchi salgono al cielo. Cattedrale di mangrovie infinite rendono omaggio a questa natura primitiva e selvaggia, dove ogni cosa, per dimensioni e forme appare nuova ai nostri occhi europei. Intorno al sentiero le radici di questi alberi superbi, a volte più alte di noi, creano figure quasi sinistre di tentacoli giganti, ci sentiamo piccoli.
Le mangrovie sono una vista quasi onnipresente, ricoprono le rive del Cooper Creek, fiume dalle acque limacciose che navighiamo qualche tempo dopo. Uccelli si involano a pelo d’acqua, partendo dai rami più bassi. E’ pomeriggio. Improvvisamente la barca rimane immobile proprio nel mezzo del fiume. Un silenzio irreale cala tra le mangrovie; solamente un fischio penetrante echeggia con brevi pause e un tono ascendente da chissà dove. L’umidità flagella i nostri corpi sudati. Di nuovo il fischio, nel silenzio assoluto rende l’atmosfera carica di tensione, in una scena degna di Apocalypse Now. D’un tratto un sommesso sciabordio a una decina di metri dall’imbarcazione cattura la nostra attenzione, ci voltiamo appena in tempo per vedere un mostruoso coccodrillo scattare aprendo e serrando le fauci su un uccello di fiume. Poi più nulla e di nuovo silenzio. Senza scampo la vittima sarà stata trascinata in un luogo appartato per essere finita.
Questa è la foresta, meravigliosa e senza pietà, la lotta per la sopravvivenza spietata, eppure il suo fascino è ipnotico e chiunque vi sia stato desidera tornarci. Un luogo che per noi, abituati alla civiltà antropizzata da cui veniamo sembra smisuratamente pieno di pericoli, estraneo e indecifrabile e che comunque risveglia istintivamente un’attrazione che ha il sapore di casa. Una casa che abbiamo perduto per sempre.

martedì 21 gennaio 2020






L’ABBAZIA DI VALVISCIOLO storia e mito nel Lazio medievale

La storia di questo luogo di culto è antichissima e leggendaria; probabilmente fu costruito intorno al X secolo dai monaci greci brasiliani. Nel 1165 Federico Barbarossa, allora in guerra con  Papa Alessandro III fece distruggere numerose città del Lazio e costruzioni religiose; ne fecero le spese Ninfa e l’annessa abbazia di Marmosolio, dedicata a Santo Stefano, così che i monaci bianchi, secondo la tradizione furono costretti a trasferirsi, tra il 1166 e il 1168, nella vicina abbazia di San Pietro, che divenne l’abbazia dei Santi Pietro e Stefano di Marmosolio. Fu poi nel 1312 che questa assunse il nome di Valvisciolo allorché vi si trasferirono i monaci provenienti da un’altra abbazia appena distrutta, quella di Valvisciolo nei pressi di Carpineto Romano.  Nel 1411 Santo Stefano cadde in commenda e vi restò fino al XIX secolo. Nel 1523 l’abbazia fu declassata a priorato da Papa Clemente VII e nel 1529 ridotta a priorato secolare, quindi i monaci bianchi dovevano essere già andati via. Tra il 1600 e il 1605 fu occupata dai Foglianti (cistercensi riformati) che la tennero quasi ininterrottamente fino alla soppressione degli ordini religiosi attuata da Napoleone all’inizio dell’800. Nel 1846 Papa Pio IX richiamò i cistercensi nella sede, nel 1870 il monastero fu di nuovo soppresso, ma i monaci non lo abbandonarono e nel 1888 esso fu ricomprato dall’Ordine.
Nonostante la storia travagliata e la vicinanza con la ben più famosa abbazia di Fossanova, l’abbazia di Valvisciolo si presenta come un piccolo capolavoro dell’arte cistercense del Lazio. Le dimensioni ridotte ne permettono una visione di insieme che ne mette in evidenza contemporaneamente l’aspetto generale semplice e austero tipico dell’architettura cistercense e i preziosi particolari. La chiesa ha facciata tripartita, con la parte centrale, corrispondente alla navata centrale, più alta degli altri corpi. La lunetta semicircolare sopra il portone presenta un affresco raffigurante la Madonna con il Bambino tra San Benedetto e un altro Santo. Al di sopra della lunetta spicca lo stupendo rosone di circa cinque metri di diametro, formato da dodici colonnine che si irradiano a partire da un foro cruciforme centrale. L’interno della chiesa non è imponente, le tre navate sono scandite da cinque campate coperte da volte a crociera. Gli altri locali dell’abbazia si trovano accorpati al lato a destra della chiesa e sono accessibili attraverso un antichissimo portale ad arco a tutto sesto. Lascia un senso di pace nella sua armonica quiete il chiostro. Di pianta quadrata con corridoi perimetrali coperti da volte a crociera e aperti sul lato interno per mezzo di colonnine binate in travertino; particolare su cui vale la pena soffermarsi durante la visita è la varietà di capitelli di tali colonnine. Dal lato orientale del chiostro si accede alla sala capitolare, ossia la sala comune così chiamata perchè ogni giorno vi si riunivano tutti i monaci per ascoltare un capitolo della regola di San Benedetto, formata da due navate e con due pilastri cilindrici al centro. Altra particolarità di questa costruzione è che in contraddizione con i canoni edificativi cistercensi (e quindi anche con Fossanova) il refettorio non è perpendicolare, ma parallelo al chiostro.
L’abbazia si presenta come un luogo mitico, in cui si incrociano e si mescolano fatti storici, antiche leggende e lontane presenze. Il relativo isolamento di questa abbazia, alle pendici dei Monti Lepini, sul margine delle Paludi Pontine, da sempre zona – limite del mistero dall’epoca romana e per tutto il medioevo, hanno reso il luogo ideale per l’attecchire di leggende e miti, qualche volta in  parte suffragati dalle evidenze artistiche e archeologiche.
La maggior parte di questo repertorio è legato alla presenza dei templari, con almeno due affascinanti leggende che vale la pena di ricordare. La prima ha a che fare con una credenza diffusa a partire dal XIV secolo secondo la quale la crepa sull’architrave dell’ingresso della chiesa sarebbe apparsa il 18 marzo 1314, data in cui venne messo al rogo l’ultimo gran maestro dei templari Jaques de Molay. Sempre legata allo scioglimento del famoso ordine di monaci-guerrieri è un’altra storia, ricordata da più fonti tra XIV e XV secolo la quale  narra che i monaci scampati agli arresti e alle esecuzioni in Francia ad opera di Filippo il Bello, sarebbero giunti nel Lazio e avrebbero nascosto il tesoro dell’ordine in alcuni centri monastici a loro fedeli, tra cui  Valvisciolo; vuole quindi la leggenda che parte di questo tesoro sia ancora nascosto nei sotterranei dell’abbazia. Questi miti, di antichissima origine, sebbene non abbiano alcuna prova storica, testimoniano l’importanza che ebbe il centro in quell’epoca. Al di là di miracoli e tesori la presenza dell’ordine del tempio è stata ipotizzata da molti studiosi sulla base di simboli che all’interno della struttura campeggiano un po’ ovunque sotto forma di incisioni e graffiti, ci si riferisce in particolare al nodo di Salomone, segno grafico che storicamente può essere ricondotto alla mistica templare e che si trova inciso in diversi punti. A questo proposito un muro del chiostro si presenta come una vera miniera di incisioni di antichissima origine, probabilmente opera di monaci medievali. Tali graffiti, molti dei quali incomprensibili, sono testimoni di un’epoca in cui religione, mistica, magia e esoterismo erano in larga parte fattori comuni della formazione degli uomini, compresi quelli di chiesa; famoso in questo senso il quadrato magico inciso sulla parete e oggi protetto da una lastra trasparente, che trova le sue origini nella magia di Roma antica (un esemplare è stato trovato inciso su una colonna a Pompei). Tale incisione, col le parole di rito SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, deve la sua fama al fatto di essere l’unico esemplare di tale frase magica raffigurata non come un quadrato ma come un cerchio concentrico diviso in settori.
Questa ed altre iscrizioni, di natura mistica e magica furono spesso usate come formule magiche dalle confraternite religiose a carattere iniziatico, di cui i templari furono sicuramente la più famosa, ma non l’unica. Il medioevo fu un tempo in cui la ricerca della fede spesso camminò di pari passo con la magia ed il misticismo e l’appartenenza ad ordini religiosi veniva spesso a coincidere con il venire in possesso di riti e conoscenze che molto ancora dovevano ad un paganesimo temporalmente troppo vicino, a culti della terra e della natura che solo col tempo furono inglobati e integrati con successo nel cristianesimo, ma che inizialmente avevano ancora una forza prorompente. Così essere monaci (guerrieri o meno) significava far parte di una confraternita che affiancava, naturalmente, l’insegnamento del Vangelo e retaggi esoterici e mistici che venivano in gran segreto diffusi tra gli adepti.
La magia di questo luogo rimane tuttora intatta nella splendida atmosfera che si respira passeggiando nel chiostro fiorito a primavera, tra le possenti arcate, la pietra chiara ed il salutare silenzio, al di fuori dei circuiti turistici di massa, nel cuore stesso del medioevo ricco di echi e suggestioni.

giovedì 16 gennaio 2020






Sull'isola deserta della barriera corallina - LADY MUSGRAVE ISLAND -

[Australia]


Lo Spirit Of 1770, un catamarano leggero a motore, spinge  coraggiosamente la prua verso il mare aperto. Dagli oblò, le onde gonfiate dalle correnti oceaniche, sembrano accanirsi sulla malferma imbarcazione che ne viene investita continuamente. Si impenna, vibra, si alza su un lato e pericolosamente si poggia solo per attendere un nuovo assalto dei flutti. A bordo, a parte l’equipaggio, quasi tutti sono in preda al mal di mare e sopraffatti dalla nausea. Siamo partiti dal porto di un villaggio dal nome curioso: 1770, dove il capitano Cook sbarcò, appunto in quell’anno sulla costa australiana, diretti su una piattaforma nel mezzo della barriera corallina posta a tre ore e mezzo di navigazione dalla costa orientale. Qui si fermerà la maggior parte dei nostri compagni di viaggio, ora intenti a superare il momento da sbornia che stanno vivendo per godersi una giornata di snorkeling tra i colori vivaci del famoso fondale e tornare indietro nel tardo pomeriggio. Noi invece saremo sbarcati da una lancia sull’isola disabitata chiamata Lady Musgrave, che fa parte dell’arcipelago isolato e intatto delle Capricornia Keys. Abbiamo chiesto on line un permesso al governo australiano per poter raggiungere l’isola con l’intento di passarci la notte. Siamo avvertiti di portare acqua e viveri in eccesso, poiché non vi è niente e se il mare fa capricci ancora maggiori non è detto che possano rivenirci a prendere.
Mentre ragazzi e signori indossano il necessario e si lanciano dalla piattaforma all’esplorazione dell’oceano, noi ne approfittiamo per recuperare le forze e ammirare da lontano la bellezza selvaggia dell’isola da sogno che ci appare come nelle descrizioni dei romanzi di avventura, intatta e meravigliosa. Abbracciata da una striscia di spiaggia bianchissima, ricoperta da una lussureggiante vegetazione, circondata da un mare cristallino che si perde fino all’orizzonte, maestoso. E’ primo pomeriggio quando la barca dal fondo piatto ci lascia sulla spiaggia meridionale, unico punto di sbarco. Non calpestiamo sabbia, ma bianchissimi coralli, portati a riva dal mare. In realtà tutta l’isola non è terraferma, ma sedimentazione di coralli in centinaia di anni il cui cumulo ha alzato la barriera al di sopra del livello del mare. Camminiamo letteralmente su una porzione emersa di barriera corallina. Il sentiero si fa largo attraverso la fitta foresta di Pisonie, gli unici alberi in grado di adattarsi a questa conformazione, con le loro radici fuori dal suolo e la struttura leggera. E’ quasi incredibile trovare un bosco così distante dalla terraferma. In breve siamo sulla spiaggia occidentale, qui c’è una stazione radio, un gabinetto a fossa nera, alcuni impavidi campeggiatori dispersi sotto l’ombra delle Pisonie. 
Anche noi piantiamo la tendina ultraleggera portata appositamente dall’Italia in una piccola radura presso la spiaggia, recuperiamo maschere e mezze mute e corriamo verso l’oceano. Il fondale rimane basso a lungo, chiuso da ogni parte dai coralli vivi a filo d’acqua; fatichiamo non poco per trovare un varco, presidiato comunque, da un gran numero di cetrioli di mare. Quello che ci aspetta è uno spettacolo di impressionante bellezza. Distese di coralli a perdita d’occhio, tra i quali navigano sicuri pesci pagliaccio e tutte le forme di vita dall’aspetto bizzarro e i colori sgargianti tipici di questo ecosistema. La barriera corallina sprofonda per decine di metri, creando un possente muro che tiene al sicuro le coste dell’isola. Attraverso un profondo crepaccio che rompe la continuità di questa ci spingiamo in mare aperto. Qui l’acqua diventa profondissima, è il regno degli squali. Ma nel voltarci i primi abitatori di queste profondità che ci vengono incontro sono una magnifica coppia di tartarughe marine. Queste tartarughe, abbastanza comuni anche nel Mediterraneo, trovano qui un habitat perfetto per deporre le uova, protette dalle acque basse che circondano la spiaggia. Nonostante la loro imponente mole (sono entrambe poco meno lunghe di me) si muovono agilmente nell’acqua, tanto da farci sentire decisamente goffi. Per un pezzo fanno la nostra stessa strada, guardandoci più con curiosità che con sospetto. Intorno a noi l’esplosione di vita, di colori, forme sembrano condurci per mano attraverso un giardino fiorito nato dalla più sfrenata delle fantasie. Qui la Natura ha potuto sperimentare, provare, fantasticare; eppure questo eden sommerso è un ecosistema delicato, nel quale l’equilibrio della diversità è garantito da condizioni il cui mutamento, anche minimo, possono portare a conseguenze letali. Il riscaldamento delle acque, il loro innalzamento, la crescente frequentazione turistica (per quanto estremamente controllata), sono minacce da prendere molto seriamente se si vuole preservare quest’angolo di paradiso.
Il resto della giornata è dedicata all’esplorazione dell’isola. Attraverso sentieri tra le Pisonie raggiungiamo la spiaggia a sud est, qui sorge un faro e l’ampia laguna che circonda tutto il lato meridionale dell’isola. L’acqua da questa parte è completamente chiusa da un recinto di barriera che la mantiene alta non più di mezzo metro. L’ambiente è completamente diverso rispetto alla zona della prima immersione, poche tracce di vita, nessuna bizzarra costruzione corallina. Dalla spiaggia si scorge ogni tanto la sagoma bruna di una tartaruga marina che attraversa questa piscina naturale seguendo percorsi ormai millenari. Percorrendo la costa troviamo almeno due siti di deposizione delle uova di questo splendido animale, a sud e a ovest; si tratta di mucchi di coralli e fogliame all’interno dei quali vendono deposte le uova dalle quali usciranno i piccoli che dovranno guadagnarsi il mare percorrendo i pochi metri  di spiaggia in una traversata drammatica. La schiusa è già terminata, a testimonianza di questo evento meraviglioso rimangono  gusci vuoti. L’isola per la sua posizione di isolamento non sembra accogliere insetti, in compenso la volta della foresta risuona di versi di numerosi uccelli marini che trovano qui e nelle altre isole dell’arcipelago una base perfetta per le loro spedizioni di pesca. Le spiagge sono occupate dalle Ardenne Pacifiche, che soprattutto al tramonto compiono le loro evoluzioni in un gioco di colori nel sole che muore. Poco più in là nell’acqua bassa la Garzetta del Reef compie una puntuale esplorazione della laguna alla ricerca di piccoli invertebrati. Nella foresta il continuo verso delle Sterne Stolide rende questa’isola sperduta tutt’altro che silenziosa. Raggruppate in numeri impressionanti sugli alberi ci seguono con sguardo noncurante mentre camminiamo sotto di loro. Un suono sommesso di fogliame calpestato e zampe che raspano il terreno annuncia, improvvisa, la comparsa di un Rallo, grazioso uccello dal piumaggio rossiccio incapace di volare; chissà come è giunta fin qui questa nutrita colonia di spazzini del sottobosco.
Giunge la notte, il momento in cui l’isola da il meglio di sé. All’interno della piccola tenda che abitiamo penetrano i versi concitati dei tanti volatili che popolano questo fazzoletto di terra, fusi in una possente sinfonia col ritmo cadenzato del mare. Già il mare, che per almeno un centinaio di chilometri domina indiscusso l’orizzonte tutto intorno. Da sola questa oscurità dispersa e sperduta vale il viaggio intrapreso. Un senso di confortevole precarietà si impossessa di noi; qui lontano da tutto, corrente elettrica, cellulari, televisione, lasciati su 140 metri quadrati di terra circondati solamente da chilometri di disabitato oceano,  si tende a riscoprire a pieno il senso della parola essenzialità, come di una condizione che, contrariamente a quello che ci hanno abituato a credere, permette di sentirsi realmente vivi.
Il giorno successivo attendiamo speranzosi sulla spiaggia nord l’imbarcazione che deve ricondurci al catamarano. Quando all’orizzonte finalmente si profila, il ritorno alla civiltà ci suscita sentimenti contrastanti. La condizione di naufraghi sarebbe potuta durare ancora prima di divenirci pesante.

sabato 4 gennaio 2020


Camminare per riscoprire il territorio


Tutti sappiamo, in qualche modo, che camminare fa bene. Fa sicuramente bene al fisico, aumenta il fiato, rassoda i muscoli, fa dimagrire; probabilmente sappiamo bene anche che fa bene alla mente, distende, aiuta a riflettere, a prendere decisioni, a porre in una prospettiva diversa i problemi della vita. Un vecchio adagio latino recita: “solvitur ambulanda”, camminando si risolve.
In effetti non bisogna mai dimenticare che l’atto di camminare è uno dei principali e più naturali gesti umani sin dall’alba della nostra specie. E’ talmente naturale da essere scontato e talmente scontato da non essere visto come essenziale; eppure oggi più che mai muoversi a piedi è al centro di un movimento informale, di un dibattito e di una serie infinita di formulazioni scientifiche e psicologiche, che dimostrano in modo inequivocabile quanto non sia più scontato il fatto di muovere un piede dietro l’altro. In effetti non è l’atto in se e per se, la dinamica a correre rischi, quanto più che altro il fatto di prendere seriamente in considerazione questa pratica come mezzo valido di spostamento. L’auto, il computer, la pigrizia hanno dato una spallata notevole all’importanza di camminare e, dove fino a qualche anno fa si trattava di una ineluttabile necessità, oggi si parla di “piacere di camminare”, rendendolo sport.
Dietro la rinascita del cammino vi è una filosofia ben precisa, chiamatela teoria del movimento lento (in contrapposizione alla logica della velocità, che oggi domina ogni discorso sullo spostamento) o in qualunque altro modo, ciò che conta è che gli adepti del cammino ne hanno fatto spesso uno stile di vita. Il cammino è stato spesso associato alla meditazione, per concetto e per sensazioni (si veda in proposito Leria Michael M., Street Zen, l’arte di camminare in meditazione); ma senza andare oltre lo stretto utilitarismo, nelle moderne teorie della psicologia motivazionale e del lavoro, alcuni pionieri ne hanno intravisto le potenzialità anche come strumento di crescita lavorativa e gestionale, rendendola un’attività fortemente formativa in termini manageriali, soprattutto per quel che riguarda il miglioramento prestativo sotto gli aspetti dell’orientamento al risultato, della tenacia, della flessibilità, dell’autocontrollo e della fiducia in sé. Le considerazioni che qui interessano sono molto più semplici: vivere il territorio e conoscerlo fino in fondo non può prescindere dall’atto primordiale di calcare le strade e i sentieri tracciati per questo sulla terra. Indubbiamente mettersi in cammino, per percorrere qualunque strada o distanza dona alcuni valori aggiunti alla nostra vita e alla nostra percezione: si impara ad accettare gli imprevisti, si scopre lo spirito di adattamento, si assapora il silenzio, si impara a distinguere tra superfluo e necessario. Visitare in macchina un luogo non renderà mai quel luogo tanto speciale  come arrivarci a piedi, anche solo dopo mezz’ora di cammino.
Ormai da qualche tempo anche il turismo culturale si sta evolvendo sempre più in questa direzione, con la nascita e lo sviluppo di cammini, sentieri, tracciati, aree protette dedicate, una  manualistica e compendi di itinerari curati e precisi. In effetti la nostra regione è solcata da una gran quantità di strade antiche (le strade romane, le strade di pellegrinaggio, le vecchie mulattiere abbandonate, i sentieri dei pastori) in cui il contatto con la storia ed il territorio è vivo e sorprendentemente appagante. Le ragioni di questo crescente successo sono molteplici, ad alcune abbiamo accennato poco sopra, ma tendenzialmente sono di tre tipologie: motivazioni fisiche, motivazioni ecologiche, motivazioni culturali. A quelle fisiche abbiamo già accennato all’inizio, ma è opportuno segnalare che visitare luoghi camminando o passeggiare in un bosco, aiuta a combattere lo stress , regolarizza la respirazione, rinforza il cuore, una regolare abitudine al cammino aumenta il livello generale di benessere psico – fisico e combatte l’obesità.
Con l’avanzare di una consapevolezza ecologica sempre più radicata, inoltre, si è avviata una riflessione tesa al ripensamento della cosiddetta sostenibilità, sia per quel che concerne gli spostamenti quotidiani (recarsi al lavoro), ma anche per quel che concerne la vacanza o la semplice visita. Insomma, sempre più persone si mettono in cammino per visitare i luoghi del nostro territorio. Eh si, perché spesso ci si dimentica, pur sbandierando fedi ecologiste più o meno convinte, che camminare è in assoluto il modo più ecologico per spostarsi, magari abbinato ai mezzi pubblici. Riscoprire il cammino rende liberi. Ci libera dalle limitazioni che la società della comodità ci mette davanti, ci consente di poter scegliere un’alternativa che  ci permetterà sempre di recarci dove vogliamo, a dispetto di tutte le barriere e gli ostacoli (scioperi compresi), tutto questo nella certezza di fare veramente qualcosa per l’ambiente. Non si tratta di diventare integralisti del cammino (ne conosco e non conducono una vita molto semplice), ma di iniziare  a riconsiderare quando sia veramente una questione solamente di pigrizia la scelta di non camminare e di iniziare a godere di qualche bella passeggiata, magari ogni tanto.
Le motivazioni culturali sono una conseguenza di tutto questo. Sul nostro territorio si snodano veramente percorsi che da millenni disegnano il cammino di soldati, religiosi, santi, mercanti e fuggiaschi. Percorrere queste antichissime arterie di comunicazione a piedi, poggiare il piede sull’antico lastricato di una strada romana è veramente un’esperienza che rimane dentro. Addentrarsi in un bosco lungo un sentiero serpeggiante tra i monti. Dedicare un’ora a passeggiare sul lungo Tevere. Raggiungere con un po’ di fatica un eremo sperduto. Non sono solamente sensazioni uniche, sono un modo del tutto diverso di vedere tanto la meta quanto il percorso. Nessuno potrà mai spiegare come la lentezza del cammino accresce l’osservazione di ciò che ci circonda, come un’abbazia appare piano piano, a cominciare dal campanile per poi mostrarsi maestosa a poco a poco, curva dopo curva, metro dopo metro. Sotto questo punto di vista mettersi in cammino è anche un po’ mettersi alla prova, tentare, scoprire. E’ un’esperienza che fa entrare in contatto diretto con la realtà, che sia montagna, città, spiaggia o strada. La velocità con cui ci passa accanto il panorama mentre viaggiamo in auto o in moto nasconde il vero volto del territorio, mentre camminare, nella piena libertà, immersi nei pensieri, con l’occhio limpido proietta l’ambiente dentro di noi e ce ne rende parte; in questo modo la meta, ciò che vogliamo visitare, diventa non l’esperienza esclusiva, bensì una porzione di esperienza che si dilata a tutto quello che si incontra durante il cammino di avvicinamento, stati d’animo e umore compreso. Lo stato d’animo diviene in tal modo esattamente la stessa cosa dell’ambiente circostante e tutto insieme viene a costituire la nostra esperienza, per questo un luogo non sarà mai lo stesso per due persone che l’hanno vissuto e non solamente visto.
 Il grande filosofo Rousseau ebbe a dire, con magistrale riassunto di tutto quello fin qui accennato: “Mai ho pensato, ho vissuto, sono stato vivo e me stesso come in quei viaggi che ho fatto a piedi e da solo”. Impossibile smentire.