mercoledì 18 dicembre 2019

#unlibrounviaggio




Tra Giungle e Pagode - Giuseppe Tucci


[Nepal] - III parte



Il monastero è enorme e ferve di un’attività confusionaria e chiassosa. Sciami di Nepalesi intenti si spostano frenetici da un muro all’altro, da un dipinto all’altro. Il monachello ci indica un uomo di spalle accovacciato in un angolo del tempio. Si volta e ci viene incontro.
Luigi vive qui da 12 anni, quando era studente di restauro un professore gli ha paventato l’opportunità di venire in Nepal per un progetto americano di ristrutturazione degli edifici sacri della capitale. Non se ne è più andato, rapito dalla selvaggia poesia di questo paese. Con il tempo ha preso le redini del progetto, coordina una squadra di giovani restauratori locali con i quali condivide tutto, tempo, abitudini, modi di vita. Dopo la cena in una scalcinata locanda saliamo a casa sua, per condividere un po’ di whiskie che ha portato dall’Italia, parliamo molto del nostro paese e del Nepal. Quando è arrivato qui il tempo si era fermato al Medioevo, dice. Credo che la situazione fosse molto simile a quella trovata da Tucci nel suo viaggio; poi le cose hanno iniziato a cambiare velocemente. Ora arrivano molti più prodotti, attraverso la pista carrabile nata per spostare i mezzi per la costruzione della strada, ma che, naturalmente viene percorsa ogni giorno da jeep che trasportano un po’ di tutto. Un progresso tanto atteso quanto sbilanciato sta cadendo addosso a queste popolazioni, senza che neanche se ne rendono conto. La nostra guida attraversa i passi gettando in terra le carte dei pochi biscotti confezionati che troviamo negli empori. Così fanno tutti, tra qualche anno, quando carta, plastica e chissà cos'altro arriverà in quantità industriale attraverso la strada cosa succederà? Cosa è cambiato principalmente da quando sei arrivato? – chiedo a Luigi.
“stanno diventando molto più attaccati ai soldi”. Amen.
Si – Ta torna con il viso contrito della sconfitta: non ci sono più jeep a disposizione, dovremo andare a cavallo. A circa un’ora di distanza a nord di Lo – Manthang si trova il villaggio di Choser. Per strada ci fermiamo a pranzo in una specie di locanda tendata lungo la strada. Qui siamo veramente vicini al confine con il Tibet. Una lunga striscia di montagne in lontananza ed una strada bianche che serpeggia sotto le vette rappresenta questo mitico non luogo che echeggia con tutto il suo fascino nelle nostre fantasie. Siamo qui per visitare delle grotte, un complesso di cunicoli scavati nel cuore della montagna, a più piani. E’ dal primo giorno di cammino che a tratti, siamo accompagnati da una miriade di grotte che vediamo da lontano sulla parte più alta della valle, continuamente. Sul loro utilizzo Si Ta e Tucci sono d’accordo, furono le prime abitazioni delle popolazioni Tibetane prima che queste iniziassero a costruire le case. Qui ne abbiamo la conferma. L’interno è costituito da una serie di ambienti con scale, stanze, nicchie e corridoi. All’ingresso sono stati accatastati gli oggetti rinvenuti. Parlano di una vita quotidiana fatta di semplicità e lavoro. La maggior parte sono abbastanza recenti, ma ce ne sono di antichissimi. Segno di una continuità abitativa che parte dagli albori della storia e prosegue fino a non molti anni fa. Il paragone col presente ed ancora di più con il futuro urla davanti ai nostri occhi.

La corte centrale accoglie una ampio gazebo, intorno numerose costruzioni di pietra e fango accolgono i viandanti, sembra un albergo diffuso come quelli che stanno prendendo piede in Europa, in realtà è il villaggio di Yara, posto sulla via del ritorno verso Jomson. Qui la strada non arriva, è un luogo molto più fuori mano. Ci assalgono gli abitanti per vendere manufatti di ogni sorta. E questa è una novità nel nostro percorso. E’ il sesto giorno di cammino, senza contare i due passati a Lo – Manthang. Dalle ripide scale di accesso alla piazza inizia una sfilata di anziani e ragazzi vestiti in abiti tipici. Hanno organizzato un piccolo spettacolo di danza e canti locali. Mentre la danza scivola ritmata nei volti scavati dal tempo e abbronzati dalle intemperie degli anziani la mia attenzione cade su una ragazza del gruppo. Stride perchè indossa una tuta. Stride perché fatica a tenere il tempo della danza. Impegnata, mentre si muove impacciata, a giocare con il cellulare. Sorride, leggendo chissà cosa, mentre gli anziani la fulminano con gli sguardi. Segno dei tempi che stanno per cambiare. Mentre ci ritiriamo nelle stanze di terra battuta, sentiamo dietro di noi parole concitate e schiamazzi. Gli abitanti stanno litigando ferocemente sulla suddivisione dell’offerta che abbiamo lasciato.

Si Ta accende devotamente l'incenso. Con gesti misurati e profondi si avvia verso la grande statua del Budda depone il bastoncino fumante proprio ai suoi piedi; rimane immobile per qualche minuto, concentrato in una preghiera antica e saggia. Con lo sguardo rivolto all'immagine colorata recita mentalmente ataviche formule. Poi, con fare altrettanto cerimonioso cerca il portafoglio, ne estrae una banconota, che piega in forma conica e la depone piamente tra le altre offerte. Si volta con il sorriso sereno di chi ha fatto il proprio dovere religioso e la sua partecipazione emotiva è evidente. Unico problema: Si Ta non è buddista. Come la maggioranza della popolazione nepalese è induista, ma, mi spiega, fa lo stesso. Non è stato facile comprendere questo strano atteggiamento di religione “allargata”, fin quando non siamo giunti qui a Muktinath. Siamo al IX giorno di cammino. Il villaggio è profondamente diverso da quelli che abbiamo incontrato, più grande, più moderno, ricorda vagamente un paese del far west con strade polverose, empori e botteghe ai lati, uomini a cavallo che vanno e vengono seguiti da torme di ragazzini. Per giungere qui abbiamo varcato il passo di Gyu – La, ultimo quattromila del nostro viaggio; rossi templi ed una imponente statua del Buddha campeggiano fin da lontano. Le strade sono piene di pellegrini, giunti fino dall’India. Questo è un luogo sacro di grande importanza: dal fianco di questa montagna scaturiscono polle d’acqua bollente e fiammelle di metano. Per custodire e venerare il miracolo è nata un’imponente area sacra mista, adagiata placidamente in un pacifico boschetto. La suggestione di questo luogo è potente, I luoghi sacri non hanno mai un principio: sono sacri da quando l’uomo li scoperse, stranamente vivi per la divina, invisibile presenza che vi alita intorno e si manifesta nella particolare amenità del sito o nell’acqua salutare o in certi aspetti miracolosi e fuori dall’ordinario. L’uomo attonito o spaurito sente vibrare nell’aria presenze certe ed invisibili cui le religioni, seguendosi con la labilità di tutte le istituzioni umane, daranno via via diversi nomi, per adombrare con diversi simboli il medesimo mistero. Buddhisti e Visnuisti non sono i soli a convivere a Muktinath; ci sono pure i Bonpò, forse i primi a scoprire la santità del luogo, perché i primi a dare forma alle istituzioni religiose degli aborigeni. Così Tucci spiega questa commistione di religioni nel medesimo luogo ed io non posso fare a meno di pensare che tra questa gente la convivenza religiosa, così difficile e faticosa dalle nostre parti, ha raggiunto vette di tolleranza che quasi diventa amalgama: il sacro è sacro in tutte le sue forme. Il luogo santo è veramente suggestivo, on il tempio di Visnù che spicca solitario al centro di numerosi monasteri Buddhisti. Un gruppo di monache Buddhiste (cenciose, le ricorda Tucci, ma a noi oggi non sono sembrate così mal ridotte) custodisce oggi come ieri il monastero dal quale, attraverso una grata nel terreno si possono ammirare le vivide fiammelle che scaturiscono dalla roccia.


E la religione Bonpò di cui parla Tucci? Qui non se ne ha più traccia. Questa che fu la religione shamanica dei primi abitanti si è ormai fusa da tempo con il Buddhismo, diventandone una corrente spirituale e dedita a pratiche di estasi. Noto con una certa soddisfazione che l’indomani, ultimo giorno di cammino per tornare a Jomson passeremo per lo sperduto villaggio di Lupra, la mappa indica la presenza di un monastero Bonpò, prego SITA, che non conosce affatto questa religione di informarsi.
Quando arriviamo al villaggio ci accomodiamo per il pranzo presso una casa. SITA parlotta brevemente con il padrone, poi sparisce. Quando torna è visibilmente soddisfatto: il monastero Bonpò è visitabile, lo shamano non c’è, ma la sua “perpetua” può aprirlo. Quella che viene ad aprirci sembra più un giocatore di football americano che una perpetua: alta, spalle larghe, lineamenti del viso indiscutibilmente virili. L’interno del piccolo monastero è buio, pervaso da un odore penetrante di chiuso, incenso ed umidità, ma le decorazioni sono qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che abbiamo visto finora. A parte i classici signori delle direzioni posti dietro la porta, tutto il resto del muro è affrescato con motivi naturalistici, piante, uccelli, poi figure umane che sembrano santi cristiani in atto di benedire, ed ancora un uomo che cavalca un cervo con in mano un ananas. La luce fioca si diffonde intorno conferendo alla stanza un’atmosfera sognante e crepuscolare, che stordisce i sensi ed alimenta  il senso di sconosciuto e di impalpabile.  Dal soffitto pendono misteriosamente numerose sacche scure. La strana donna ci dice che contengono maschere rituali. Un paio di queste sono scoperte appese accanto all’altare: rappresentano un demone ed una testa di cervo dai tratti decisamente poco mansueti. Le statue di Buddha ci ricordano comunque che questa antica religione è stata inglobata nel complesso del culto Buddhista, pur mantenendo tratti del tutto particolari. Chiediamo alla don a dove sia lo shamano. Risponde seccamente di non saperlo. Troppo seccamente. Ce ne andiamo da quel luogo carico di mistero con la sensazione palpabile di averlo avuto accanto per tutto il tempo, lo shamano e che si sia voluto divertire alle nostre spalle travestendosi da donna. Ma questo non lo sapremo mai.
Siamo ormai nei pressi di Jomson. Dal crinale della montagna vediamo in lontananza, poi farsi sempre più vicini, dapprima grandi nuvoloni bianchi che si alzano da valle, poi arriva nitido il rumore sgraziato dei mezzi pesanti al lavoro. Infine grappoli di uomini seminudi che si addensano nelle dimensioni di formiche lungo una larga striscia bianca lungo il fiume. Incontriamo di nuovo la strada in costruzione. E con essa la domanda che ci ribalza nella testa. Quanto durerà tutto quello che abbiamo appena lasciato alle nostre spalle? Questa gente vede in questa strada il progresso e condizioni di vita più agevoli, nessuno ha mai parlato loro delle contraddizioni che inevitabilmente tutto questo porterà loro. Se non saranno adeguatamente preparati, questo luogo diventerà l’ennesima caricatura di se stesso come, purtroppo abbiamo visto accadere a troppi luoghi, a troppi popoli. 
[fine]

mercoledì 11 dicembre 2019

#unlibrounviaggio

Tra Giungle e Pagode - Giuseppe Tucci
[Nepal] - II parte




Entriamo nella guest House, un odore penetrante misto di fumo, cucinato e chissà cos’altro ci assale; è il secondo giorno di cammino e siamo giunti a Samar, che Tucci mirabilmente descrive come poche case appollaiate in una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate dalle rovine di templi e castella. Qui poche case significa letteralmente sei o sette case, costruite in pietra. Le più grandi da quando è arrivato il turismo, si sono convertite in una specie di alberghi per viandanti, sono costituite da una corte centrale e da un numero variabile di stanze che vi si affacciano, ormai siamo abituati a quanto questi luoghi possano essere spartani. Raramente troviamo acqua calda, qualche volta neanche l’acqua corrente. I bagni sono per lo più buchi nel pavimento di terra battuta, con il secchio e un mestolo come scarico. Ma stavolta dobbiamo adattarci ulteriormente, non ci sono posti nelle stanze riservate ai viaggiatori, ci sistemano in quelle destinate ai portatori, con letti duri e bagno nell’orto. Ci laviamo in un ruscello che canta cristallino e freddo nell’orto; l’alternativa è una sorta di fontanile comune nell’atrio. Una specie di vittoria dell’essenzialità prende il sopravvento. Qui non ci sono comodità che abbiano senso. Gustiamo affamati il nostro Dal Bhat, piatto unico composto da riso, verdure e, nei momenti migliori un po’ di carne. Ogni giorno. Sono i gesti, i sorrisi, i bambini che ti guardano stupiti mentre mangi ciò che crea il pasto. Momento di riposo, di confronto, di conoscenza intriso di sacralità e spensieratezza. In quest’ottica cosa importa se hai appena visto le tue verdure cucinate per terra in condizioni igieniche tali da creare scene di panico generali in qualunque ASL dell’occidente? O se fuori dalla casa tibetana in cui sei arrivato per pranzo pende attaccato ad un albero la carcassa di un vitello appena scuoiato, mentre tu partecipi alla preparazione dei momo su un pavimento tutto terra e polvere?

Ieri ero rimasto un po’ deluso, arrivando al villaggio di Ghiling, Tucci aveva acceso la mia fantasia descrivendola come intirizzita sotto venti chiassosi e sparsa su vasti campi di orzo. Mandrie di yak pascolano lente; nomadi tibetani scesi con interminabile cammino dai confini della Cina, con lo spadone infilato  alla cintola, la zazzera incolta, avvolti in pesanti casacche di lana e di pelle hanno l’aspetto di briganti; indocili ed irrequieti sono i liberi padroni dei vasti silenzi del tetto del mondo. Non mancano i venti chiassosi, né l’intirizzimento, ma i nomadi con lo spadone? Niente. Almeno qualche Yak. Nemmeno l’ombra; così, depresso il paese mi era sembrato ancora più misero degli altri. E’ mattina presto e ci attende una giornata di duro cammino per giungere a Dakmhar. Ci inerpichiamo per le viuzze del villaggio, che come tutti sembra costantemente appena uscito da un bombardamento e raggiungiamo un monastero dove un vecchio monaco ci introduce. I sette Buddha ci guardano pietrificati nelle posizioni ieratiche, contornati da affreschi di ulteriori mille Buddha. Un potente odore di incenso  ci assale. Sembra un edificio antichissimo, anche Tucci, il nostro ideale compagno di viaggio annota che il documento di fondazione del monastero ha un grande valore storico. Saliamo ancora, arroccato al culmine del paese si erge un altro piccolo monastero. Nell’aria si sparge un canto melodioso e profondo, accompagnato ritmicamente da una percussione che parla di infinito. L’accesso è precluso alle donne, Valeria rimane fuori ad attenderci, io e Si Ta entriamo. Un giovanissimo monaco interrompe il canto del Mantra e ci accoglie. All’ingresso una stufa di terra battuta ed un giaciglio di paglia. E’ l’alloggio del monaco, la parte residenziale. Il suo sorriso timido e la gioia negli occhi superano ogni questione di traduzione linguistica tibetano – nepalese – inglese – italiano. E’ contento di avere visite. Dai muri del luogo sacro, mi guarda fisso un esercito di esseri mostruosi dipinti con i colori sgargianti che solo l’arte orientale riesce a fondere con risultati così drammatici. Sono i numi tutelari della zona, costoro sono divinità feroci nell’aspetto, irascibili ed aggressive, siccome il loro compito è combattere con i demoni, mi suggerisce Tucci all’orecchio. Tra di loro spicca Makala, che avevamo già incontrato in numerosi monasteri, terribile e violento appare ornato con una corona di teschi ed una cintura di teste. Sono i demoni che ha ucciso, mi conferma il giovane monaco. Sarà lui il nostro protettore durante questo viaggio. Neanche il tempo di varcare la porta ed il canto ricomincia soave, stavolta inframmezzato da uno strumento a fiato e si spande lontano, verso i silenzi dei monti dove anche noi siamo diretti.
Superiamo un passo a 4025 metri, poi scendiamo verso Ghemi, tappa di metà giornata. Giungiamo in una valle desolata che sale ripida circondata da immense muraglie rocciose. Proprio nel mezzo di questo assoluto vuoto una lunga costruzione rossiccia ornata da una fila interminabile di ruote di preghiera. Cos’è? – domando – il più lungo Mani del Mustang, risponde orgoglioso Si Ta. I muri di preghiera sono abbastanza comuni in questa zona, i fedeli li percorrono tutt’intorno facendo ruotare i cilindri che riportano una mantra, così, la preghiera, oltre al valore della parola, assume anche una potenzialità meccanica, muovendo le frasi scritte, mettendole in moto, per così dire esse salgono e si spargono nell’ambiente circostante fino al cielo. E’ affascinante credere che anche il movimento fisico della formula sacra partecipi, in qualche modo all’efficacia della preghiera. Camminiamo ancora attraverso la vasta valle delimitata da alte montagne e da un profondo Canion scavato dal fiume. Il sentiero si snoda quasi sul bordo del baratro. In lontananza una sagoma indistinta si staglia nel mezzo della piana. Cos’è? Neanche Si Ta mi sa dare una risposta, non era mai venuto in questa zona. Quando la distanza lo permette, ci appare, in tutta la sua magia un complesso di Chorten di enormi dimensioni. Una grande costruzione centrale è contornata da altre piccole cappelle. E’ antichissimo e lo stato di abbandono rende ancora più magnificente quella visione spuntata dal nulla, nel bel mezzo del nulla. Qualche metro più in la la terra sprofonda per centinaia di metri dentro il letto del fiume. In contrasto con la terra arida e chiara, grandi pietre nere sono inframmezzate alle costruzioni. Una è piantata in terra e sembra una oscura stele di grafite. Un edificio sacro raramente è costruito a caso ed il luogo è sempre sacro prima di qualunque edificio sia posto su di esso. Questo posto emana un’energia che la sua fatiscenza probabilmente aumenta, ma mi piace immaginare che il luogo delle pietre nere fosse venerato prima che l’uomo imparasse a costruire chorten. Anche qui, come in molte parti del mondo riti e religioni, usanze e superstizioni si sono stratificate in un misto di antico e vecchio, di credo “alto” e religione popolare, legata indissolubilmente a questo ambiente.


E’ la fine del quinto giorno di cammino. Dopo aver doppiato un nuovo passo a quota 4280 metri, e sette ore di cammino il nostro piccolo drappello si affaccia dall’alto di un bastione roccioso. A tratti di nuovo ci siamo ritrovati a ridosso della strada in costruzione, con tutto il suo carico di jeep, polvere e fantasmi imbiancati che lavorano lenti e disperati. Sotto si stende una piatta, desertica valle. Immediatamente la vista vola verso le rosse mura che in lontananza ci presentano la magica città di Lo – Manthang, meta del nostro viaggio. Ci aspettiamo probabilmente una città, invece Lo – Manthang non è diversa da tutti i villaggi sperduti che abbiamo incontrato, solo un po’ più grande e molto più frequentata dalle jeep che attraverso la pista portano rifornimenti e generi tendenzialmente di lusso. Sicuramente un tempo doveva apparire diversa, se non nell’aspetto, almeno nella carica emotiva, quando guardandola, probabilmente dalla nostra stessa posizione Tucci sognante notava: trema sotto i venti che ruzzolano ringhiosi dai ghiacciai: cinta all’intorno da mura e vigilata da torri con un’unica porta che si chiude al calar della notte, è apprestata come una fortezza a difendersi dalle scorribande dei predoni che di quando in quando straripano per i sentieri ormai larghi e lievi dai pianori del Tibet occidentale. Ormai non ci sono più predoni dai quali difendersi e nessuno chiude più la porta. A vigilare sull’accesso una pietra con scritta sbiadita di una nota marca italiana di caffè. Le strade sono polverose e fangose, affiancate da fogne a cielo aperto, ma ci sono bar, locande, empori e botteghe in cui artisti vendono riproduzioni di affreschi dei monasteri, immagini sacre e mandala.
Davanti a noi sfilano vassoi ricolmi di pane tibetano e dolci. E’ una fredda mattinata sferzata dal vento, mentre ci togliamo le scarpe e varchiamo la soglia di uno dei tre monasteri del paese. Di nuovo pesante odore di chiuso e incenso. Le grandi statue di varie versioni di Buddah vigilano sulla sala. In silenzio ci raggomitoliamo contro una parete in penombra. Due file di monaci siedono una di fronte all’altra, verso l’altare i più anziani, poi via via fino agli ultimi arrivati accomodati presso l’ingresso. Un canto gutturale e profondo inizia, allora, nella sua baritonale imponenza. Immobili i vecchi, mentre i giovani ciondolano ritmicamente presi nelle spire obnubilanti della cantilena. Anche noi siamo presi nel vortice, storditi dall’incenso e dalla melodia e come ipnotizzati seguiamo la cerimonia. E’ un pasto rituale e terminerà con la consumazione delle vivande. Un giovane monaco che ha appena terminato la funzione si offre di farci da guida negli altri monasteri, che non sono in funzione. Mentre camminiamo per il paese ci chiede la provenienza. Siamo Italiani, rispondiamo, si accende in volto e ci informa che nel terzo monastero c’è un nostro connazionale. E’ un artista, chiosa.

giovedì 5 dicembre 2019







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Tra Giungle e Pagode - Giuseppe Tucci
[Nepal] - I parte

Il monsone che sta flagellando la parte meridionale del paese qui non è ancora arrivato, ciò nonostante la strada che corre tra Katmandu e Pokara è un susseguirsi di frane e smottamenti, veicoli fermi sul bordo della strada colpiti da massi, alcuni ribaltati a ridosso del burrone. La chiamano autostrada, ma quella che percorriamo è una via accidentata che serpeggia tra foreste e fiumi in un immensa nube di terra battuta alzata dal traffico intenso che toglie il respiro e costringe a tenere chiusi i finestrini.
Si incontrano pochissime macchine, in compenso file interminabili di vecchissimi e malconci camion indiani affollano per l’intera lunghezza il tragitto, superandosi con sorpassi rocamboleschi, gareggiando tra loro per chi ha il clacson più assurdo ed il colore più sgargiante della carrozzeria. Si incontra di tutto, dalle decorazioni a sfondo religioso, tra le quali primeggia Shiva col suo tridente, al camion di un devoto del Manchester United con tanto di gigantografia pittografica dello scudetto del club. In tutto questa confusionaria, asfissiante, carnevalesca traversata dura otto interminabili ore di auto.
Quando Giuseppe Tucci viaggiò in queste contrade, percorse a piedi lo stessa strada impiegando 15 giorni, all’epoca tutto era completamente diverso, quello che vide fu un paese fermo al medioevo, con una cultura millenaria ancora intatta che probabilmente nessun europeo, eccezion fatta per qualche sparuto missionario nel ‘700 aveva ancora visto. Ed era solamente l’inizio del suo viaggio.
Tucci è un nome che oggi dice poco, ma all’epoca del suo epico viaggio (erano gli anni ‘50) era considerato il maggior orientalista del mondo. Aveva già visitato più volte l’India, il Tibet ed il Nepal, fermandosi, però sempre a Kathmandu al fine di compiere studi storico – linguistici. Questa volta, raccolti fondi e attrezzature si stava addentrando in un paese misterioso. Tra gli scopi principali del suo viaggio c’era quello di esplorare il leggendario Regno di Lo, un reame semiindipendente al confine con il Tibet in cui nessun occidentale aveva messo piede e che per cultura e tradizioni doveva essere un punto di incontro tra la cultura Tibetana – buddista e la Nepalese – induista. Ne trasse un libro che ha fatto storia, Tra Giungle e Pagode. Ed è proprio con questo libro davanti gli occhi che inganno il tempo all’aeroporto di Pokara, in attesa del volo che ci condurrà a Jomson, uno dei percorsi aerei più pericolosi del mondo. Il cielo non si decide a schiarire. A vista i membri della compagnia aerea osservano lo sviluppo del tempo, in trepidante attesa di una finestra che permetta al bimotore di passare fra due ottomila ed entrare nella valle. Fremiamo dalla voglia di essere nel Mustang, come si chiama oggi, e ripercorrere a piedi lo stesso itinerario di Tucci. Neanche Si Ta, la nostra guida, è tranquilla nonostante sia un Rai, razza coraggiosa.  Si Ta non assomiglia né alla popolazione in parte Tibetana che abita queste zone, né tantomeno ai Newari, stanziati soprattutto nella zona della Capitale. Nonostante la carnagione olivastra ha tratti decisamente più asiatici. Condivide con la maggior parte degli abitanti del Nepal una statura piuttosto bassa, ma ha un grande orgoglio negli occhi. Il suo popolo abita le colline a sud del paese. Mentre gli traduciamo cosa dice la nostra guida sulle diverse etnie sorride divertito e con ampi gesti di conferma o diniego sottolinea inesattezze e verità. Scopriremo nel corso del viaggio che possiede un sottile senso dell’umorismo e un senso del servizio nei nostri confronti che a volte ci metterà in profondo imbarazzo. Gli chiedo della compagnia aerea. E’ stata fondata da due fratelli, poi uno è morto. “Incidente aereo?” azzardo “si”. Appunto. Qualcosa si muove, finalmente si parte.



Il nostro itinerario a piedi inizia da Kagbeni, in cinque giorni di cammino raggiungeremo la mitica città di Lo – Mantang, antica capitale del regno. Già qui a Kagbeni due costanti che ci seguiranno per tutto il viaggio si mostrano con tutta la loro imponenza: il Kali Gandaki, fiume nero, che scorre limaccioso lungo tutta la valle, custode dei riti, guardiano dei luoghi sacri. Proprio qui, a Kagbeni, un torrente che scende dalla città santa di Muktinath si getta nelle sue acque oscure. Ogni confluenza è sacra a queste genti. Quando la spedizione di Tucci passò in questo luogo egli ebbe modo di annotare: “Il luogo, come tutte le confluenze partecipa di una essenziale sacralità; il capitano, che è molto devoto, e Ciandra scendono sulle rive e con l’acqua attinta dove i due fiumi si confondono riempono una bottiglia e la sigillano con cura: la porteranno piamente alle loro case da tenere in serbo per la cerimonia della focaccia rituale (pinda) che una volta l’anno viene offerta ai mani degli antenati”. Accanto a questa lenta, nera, secolare massa d’acqua, la modernizzazione del paese corre molto più veloce. Lungo il fiume squadre di operai stanno costruendo argini per il passaggio di una strada. Li vediamo uscire sudici ed impolverati dai loro accampamenti, misere trincee scavate nella terra arida coperte da teloni gialli. Il prezzo del progresso da queste parti è ancora pesato in vite umane. Si Ta ci parla con orgoglio di questa nuova impresa avviata dal governo. Negli occhi, però, abbiamo scene già viste in tanti paesi in via di sviluppo e raramente queste storie hanno un lieto fine.
Davanti a noi si stende un paese arido, camminiamo interi giorni senza incontrare un albero, il paesaggio è dominato da rocce e cespugli. Immense pareti si ergono come bastioni immensi. Le uniche tracce umane sono i Chorten, sorta di cappelle campestri che solitamente contengono e custodiscono delle reliquie. Siamo ad altitudini elevate, in media tra i due  e i quattromila metri. Le bandiere di preghiera fanno da altare ad ogni passo montano, con il loro tipico rumore che ricorda il galoppo dei cavalli. Proprio questa è l’origine del loro nome Luntak, dove lun sta per vento (che da queste parti non manca mai) e tak significa cavallo. Mentre camminiamo immense vallate ci si parano davanti e panorami tanto vasti che l’occhio riesce a stento a carpirne l’ampiezza. Questo è il paese della libertà, degli antichi nomadi tibetani, delle distanze immense, dove tutto appare enorme e lontanissimo, dove i picchi si stagliano imponenti, e i sentieri sembrano arditamente disegnati su fianchi impercorribili.  L’uomo qui ha trovato un ambiente costruito come una sfida continua. Il tempo, il possesso hanno preso forme completamente diverse rispetto all’occidente. Che senso ha la fretta quando la natura ti pone davanti ostacoli anche nelle distanze più brevi?

Entriamo nella guest House, un odore penetrante misto di fumo, cucinato e chissà cos’altro ci assale; è il secondo giorno di cammino e siamo giunti a Samar, che Tucci mirabilmente descrive come poche case appollaiate in una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate dalle rovine di templi e castella. Qui poche case significa letteralmente sei o sette case, costruite in pietra. Le più grandi da quando è arrivato il turismo, si sono convertite in una specie di alberghi per viandanti, sono costituite da una corte centrale e da un numero variabile di stanze che vi si affacciano, ormai siamo abituati a quanto questi luoghi possano essere spartani. Raramente troviamo acqua calda, qualche volta neanche l’acqua corrente. I bagni sono per lo più buchi nel pavimento di terra battuta, con il secchio e un mestolo come scarico. Ma stavolta dobbiamo adattarci ulteriormente, non ci sono posti nelle stanze riservate ai viaggiatori, ci sistemano in quelle destinate ai portatori, con letti duri e bagno nell’orto. Ci laviamo in un ruscello che canta cristallino e freddo nell’orto; l’alternativa è una sorta di fontanile comune nell’atrio. Una specie di vittoria dell’essenzialità prende il sopravvento. Qui non ci sono comodità che abbiano senso. Gustiamo affamati il nostro Dal Bhat, piatto unico composto da riso, verdure e, nei momenti migliori un po’ di carne. Ogni giorno. Sono i gesti, i sorrisi, i bambini che ti guardano stupiti mentre mangi ciò che crea il pasto. Momento di riposo, di confronto, di conoscenza intriso di sacralità e spensieratezza. In quest’ottica cosa importa se hai appena visto le tue verdure cucinate per terra in condizioni igieniche tali da creare scene di panico generali in qualunque ASL dell’occidente? O se fuori dalla casa tibetana in cui sei arrivato per pranzo pende attaccato ad un albero la carcassa di un vitello appena scuoiato, mentre tu partecipi alla preparazione dei momo su un pavimento tutto terra e polvere? [continua]