mercoledì 18 dicembre 2019

#unlibrounviaggio




Tra Giungle e Pagode - Giuseppe Tucci


[Nepal] - III parte



Il monastero è enorme e ferve di un’attività confusionaria e chiassosa. Sciami di Nepalesi intenti si spostano frenetici da un muro all’altro, da un dipinto all’altro. Il monachello ci indica un uomo di spalle accovacciato in un angolo del tempio. Si volta e ci viene incontro.
Luigi vive qui da 12 anni, quando era studente di restauro un professore gli ha paventato l’opportunità di venire in Nepal per un progetto americano di ristrutturazione degli edifici sacri della capitale. Non se ne è più andato, rapito dalla selvaggia poesia di questo paese. Con il tempo ha preso le redini del progetto, coordina una squadra di giovani restauratori locali con i quali condivide tutto, tempo, abitudini, modi di vita. Dopo la cena in una scalcinata locanda saliamo a casa sua, per condividere un po’ di whiskie che ha portato dall’Italia, parliamo molto del nostro paese e del Nepal. Quando è arrivato qui il tempo si era fermato al Medioevo, dice. Credo che la situazione fosse molto simile a quella trovata da Tucci nel suo viaggio; poi le cose hanno iniziato a cambiare velocemente. Ora arrivano molti più prodotti, attraverso la pista carrabile nata per spostare i mezzi per la costruzione della strada, ma che, naturalmente viene percorsa ogni giorno da jeep che trasportano un po’ di tutto. Un progresso tanto atteso quanto sbilanciato sta cadendo addosso a queste popolazioni, senza che neanche se ne rendono conto. La nostra guida attraversa i passi gettando in terra le carte dei pochi biscotti confezionati che troviamo negli empori. Così fanno tutti, tra qualche anno, quando carta, plastica e chissà cos'altro arriverà in quantità industriale attraverso la strada cosa succederà? Cosa è cambiato principalmente da quando sei arrivato? – chiedo a Luigi.
“stanno diventando molto più attaccati ai soldi”. Amen.
Si – Ta torna con il viso contrito della sconfitta: non ci sono più jeep a disposizione, dovremo andare a cavallo. A circa un’ora di distanza a nord di Lo – Manthang si trova il villaggio di Choser. Per strada ci fermiamo a pranzo in una specie di locanda tendata lungo la strada. Qui siamo veramente vicini al confine con il Tibet. Una lunga striscia di montagne in lontananza ed una strada bianche che serpeggia sotto le vette rappresenta questo mitico non luogo che echeggia con tutto il suo fascino nelle nostre fantasie. Siamo qui per visitare delle grotte, un complesso di cunicoli scavati nel cuore della montagna, a più piani. E’ dal primo giorno di cammino che a tratti, siamo accompagnati da una miriade di grotte che vediamo da lontano sulla parte più alta della valle, continuamente. Sul loro utilizzo Si Ta e Tucci sono d’accordo, furono le prime abitazioni delle popolazioni Tibetane prima che queste iniziassero a costruire le case. Qui ne abbiamo la conferma. L’interno è costituito da una serie di ambienti con scale, stanze, nicchie e corridoi. All’ingresso sono stati accatastati gli oggetti rinvenuti. Parlano di una vita quotidiana fatta di semplicità e lavoro. La maggior parte sono abbastanza recenti, ma ce ne sono di antichissimi. Segno di una continuità abitativa che parte dagli albori della storia e prosegue fino a non molti anni fa. Il paragone col presente ed ancora di più con il futuro urla davanti ai nostri occhi.

La corte centrale accoglie una ampio gazebo, intorno numerose costruzioni di pietra e fango accolgono i viandanti, sembra un albergo diffuso come quelli che stanno prendendo piede in Europa, in realtà è il villaggio di Yara, posto sulla via del ritorno verso Jomson. Qui la strada non arriva, è un luogo molto più fuori mano. Ci assalgono gli abitanti per vendere manufatti di ogni sorta. E questa è una novità nel nostro percorso. E’ il sesto giorno di cammino, senza contare i due passati a Lo – Manthang. Dalle ripide scale di accesso alla piazza inizia una sfilata di anziani e ragazzi vestiti in abiti tipici. Hanno organizzato un piccolo spettacolo di danza e canti locali. Mentre la danza scivola ritmata nei volti scavati dal tempo e abbronzati dalle intemperie degli anziani la mia attenzione cade su una ragazza del gruppo. Stride perchè indossa una tuta. Stride perché fatica a tenere il tempo della danza. Impegnata, mentre si muove impacciata, a giocare con il cellulare. Sorride, leggendo chissà cosa, mentre gli anziani la fulminano con gli sguardi. Segno dei tempi che stanno per cambiare. Mentre ci ritiriamo nelle stanze di terra battuta, sentiamo dietro di noi parole concitate e schiamazzi. Gli abitanti stanno litigando ferocemente sulla suddivisione dell’offerta che abbiamo lasciato.

Si Ta accende devotamente l'incenso. Con gesti misurati e profondi si avvia verso la grande statua del Budda depone il bastoncino fumante proprio ai suoi piedi; rimane immobile per qualche minuto, concentrato in una preghiera antica e saggia. Con lo sguardo rivolto all'immagine colorata recita mentalmente ataviche formule. Poi, con fare altrettanto cerimonioso cerca il portafoglio, ne estrae una banconota, che piega in forma conica e la depone piamente tra le altre offerte. Si volta con il sorriso sereno di chi ha fatto il proprio dovere religioso e la sua partecipazione emotiva è evidente. Unico problema: Si Ta non è buddista. Come la maggioranza della popolazione nepalese è induista, ma, mi spiega, fa lo stesso. Non è stato facile comprendere questo strano atteggiamento di religione “allargata”, fin quando non siamo giunti qui a Muktinath. Siamo al IX giorno di cammino. Il villaggio è profondamente diverso da quelli che abbiamo incontrato, più grande, più moderno, ricorda vagamente un paese del far west con strade polverose, empori e botteghe ai lati, uomini a cavallo che vanno e vengono seguiti da torme di ragazzini. Per giungere qui abbiamo varcato il passo di Gyu – La, ultimo quattromila del nostro viaggio; rossi templi ed una imponente statua del Buddha campeggiano fin da lontano. Le strade sono piene di pellegrini, giunti fino dall’India. Questo è un luogo sacro di grande importanza: dal fianco di questa montagna scaturiscono polle d’acqua bollente e fiammelle di metano. Per custodire e venerare il miracolo è nata un’imponente area sacra mista, adagiata placidamente in un pacifico boschetto. La suggestione di questo luogo è potente, I luoghi sacri non hanno mai un principio: sono sacri da quando l’uomo li scoperse, stranamente vivi per la divina, invisibile presenza che vi alita intorno e si manifesta nella particolare amenità del sito o nell’acqua salutare o in certi aspetti miracolosi e fuori dall’ordinario. L’uomo attonito o spaurito sente vibrare nell’aria presenze certe ed invisibili cui le religioni, seguendosi con la labilità di tutte le istituzioni umane, daranno via via diversi nomi, per adombrare con diversi simboli il medesimo mistero. Buddhisti e Visnuisti non sono i soli a convivere a Muktinath; ci sono pure i Bonpò, forse i primi a scoprire la santità del luogo, perché i primi a dare forma alle istituzioni religiose degli aborigeni. Così Tucci spiega questa commistione di religioni nel medesimo luogo ed io non posso fare a meno di pensare che tra questa gente la convivenza religiosa, così difficile e faticosa dalle nostre parti, ha raggiunto vette di tolleranza che quasi diventa amalgama: il sacro è sacro in tutte le sue forme. Il luogo santo è veramente suggestivo, on il tempio di Visnù che spicca solitario al centro di numerosi monasteri Buddhisti. Un gruppo di monache Buddhiste (cenciose, le ricorda Tucci, ma a noi oggi non sono sembrate così mal ridotte) custodisce oggi come ieri il monastero dal quale, attraverso una grata nel terreno si possono ammirare le vivide fiammelle che scaturiscono dalla roccia.


E la religione Bonpò di cui parla Tucci? Qui non se ne ha più traccia. Questa che fu la religione shamanica dei primi abitanti si è ormai fusa da tempo con il Buddhismo, diventandone una corrente spirituale e dedita a pratiche di estasi. Noto con una certa soddisfazione che l’indomani, ultimo giorno di cammino per tornare a Jomson passeremo per lo sperduto villaggio di Lupra, la mappa indica la presenza di un monastero Bonpò, prego SITA, che non conosce affatto questa religione di informarsi.
Quando arriviamo al villaggio ci accomodiamo per il pranzo presso una casa. SITA parlotta brevemente con il padrone, poi sparisce. Quando torna è visibilmente soddisfatto: il monastero Bonpò è visitabile, lo shamano non c’è, ma la sua “perpetua” può aprirlo. Quella che viene ad aprirci sembra più un giocatore di football americano che una perpetua: alta, spalle larghe, lineamenti del viso indiscutibilmente virili. L’interno del piccolo monastero è buio, pervaso da un odore penetrante di chiuso, incenso ed umidità, ma le decorazioni sono qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che abbiamo visto finora. A parte i classici signori delle direzioni posti dietro la porta, tutto il resto del muro è affrescato con motivi naturalistici, piante, uccelli, poi figure umane che sembrano santi cristiani in atto di benedire, ed ancora un uomo che cavalca un cervo con in mano un ananas. La luce fioca si diffonde intorno conferendo alla stanza un’atmosfera sognante e crepuscolare, che stordisce i sensi ed alimenta  il senso di sconosciuto e di impalpabile.  Dal soffitto pendono misteriosamente numerose sacche scure. La strana donna ci dice che contengono maschere rituali. Un paio di queste sono scoperte appese accanto all’altare: rappresentano un demone ed una testa di cervo dai tratti decisamente poco mansueti. Le statue di Buddha ci ricordano comunque che questa antica religione è stata inglobata nel complesso del culto Buddhista, pur mantenendo tratti del tutto particolari. Chiediamo alla don a dove sia lo shamano. Risponde seccamente di non saperlo. Troppo seccamente. Ce ne andiamo da quel luogo carico di mistero con la sensazione palpabile di averlo avuto accanto per tutto il tempo, lo shamano e che si sia voluto divertire alle nostre spalle travestendosi da donna. Ma questo non lo sapremo mai.
Siamo ormai nei pressi di Jomson. Dal crinale della montagna vediamo in lontananza, poi farsi sempre più vicini, dapprima grandi nuvoloni bianchi che si alzano da valle, poi arriva nitido il rumore sgraziato dei mezzi pesanti al lavoro. Infine grappoli di uomini seminudi che si addensano nelle dimensioni di formiche lungo una larga striscia bianca lungo il fiume. Incontriamo di nuovo la strada in costruzione. E con essa la domanda che ci ribalza nella testa. Quanto durerà tutto quello che abbiamo appena lasciato alle nostre spalle? Questa gente vede in questa strada il progresso e condizioni di vita più agevoli, nessuno ha mai parlato loro delle contraddizioni che inevitabilmente tutto questo porterà loro. Se non saranno adeguatamente preparati, questo luogo diventerà l’ennesima caricatura di se stesso come, purtroppo abbiamo visto accadere a troppi luoghi, a troppi popoli. 
[fine]

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