giovedì 26 marzo 2020







Perché i centauri ci ricordano che siamo bestie

(Pelio, Grecia)


La penisola del Pelio è un luogo poco conosciuto al turismo internazionale, ma è forse uno dei più affascinanti di tutta la Grecia. Un promontorio che si sporge nel mare coperto da foreste lussureggianti attraversate da sentieri che spesso portano a spiagge isolate dalla sabbia fine e dalle acque calde e cristalline. Sulle coste qualche località balneare e nell’entroterra sperduti villaggi montani poco popolati  antichi quanto l’uomo. Ed è proprio mentre mi aggiravo senza meta per uno di questi villaggi chiamato Milies, che mi imbatto nel tipico cartello a forma di freccia che indica un sentiero, il segnale indica solennemente: Grotta del Centauro Chirone. Non avevo in programma escursioni, ma come si fa a resistere ad un richiamo del genere? Imbocco il sentiero che piano piano scende dal centro abitato verso le campagne, costeggiando una buona parte del villaggio ormai spopolata e con edifici in rovina. Improvvisamente mi ricordo di aver letto che nella mitologia il Pelio era famoso proprio perché qui vivevano i Centauri. Tutti ricordiamo dalle scuole che questi esseri particolari erano metà uomini e metà cavalli, ma  a parte questo? In realtà le loro gesta più famose son abbastanza poco edificanti. Erano considerati esseri selvaggi e violenti, poco abituati al rispetto delle regole civili e di conseguenza pericolosi. La loro bravata maggiore ha un peso abbastanza importante nella mitologia tanto da meritare il nome di centauromachia (battaglia dei Centauri) e inizia con una sbronza. Il buon re Piritoo (umano) organizza le sue nozze con la fidanzata Ippodamia e decide di invitare, oltre a parecchi eroi greci festaioli, anche i Centauri, che iniziano immediatamente a bere in maniera spropositata. Uno di questi, Eurito che evidentemente aveva la dote comune a molti di diventare molesto quando si ubriaca, pensa bene di offendere il padrone di casa e tentare di violentare la sposina. Gli umani (che immaginiamo altrettanto alticci) non la prendono bene ed inizia una rissa (i matrimoni si rovinavano anche allora), che degenera in breve in una vera e propria battaglia armi in mano. Alla fine gli uomini ebbero la meglio e i Centauri furono costretti ad abbandonare la Tessaglia (v. anche Ovidio, Metamorfosi XII, 210 ss). Ovidio, sulla scia di Omero, di questi simpatici guastafeste ricorda solamente il nome di Eurito, mentre in una composizione attribuita tradizionalmente a Esiodo, Lo scudo di Eracle, si fa menzione anche ad altri compari del suddetto: Petreo (che significa rupestre), Asbolo (Fuliggine), Arcto (Orso), Urio (Montano) , Mimante, Perimede, Drialo (Quercia).
E’ ottobre, il sentiero attraversa boschi con incredibili accoppiamenti di frutti,  castagne accanto a fichi. Poi  prosegue a lungo fino al mare, ma una deviazione indica che sono quasi arrivato. La grotta è un’apertura larga e bassa, attraverso la quale si accede ad un’ampia cavità fresca e ombrosa composta da un unico locale. Al centro di questa qualche devoto ad antichi culti ha posizionato una grande spirale di sassi con al centro fiori ormai secchi. Sembra più un’istallazione di Land Art, ma rimanendo qualche minuto in silenzio al suo interno ne percepisco appieno la sacralità ed un rispetto tanto antico quanto profondo. Così la tradizione vuole che qui abitasse Chirone. Bene, se abbiamo detto che i centauri erano violenti ed insolenti, lui rappresenta l’eccezione. Figlio di Crono, era famoso per la grandissima saggezza, nonché per essere buon amico degli uomini (soprattutto di Peleo). La sua gloria imperitura è dovuta al fatto che la tradizione lo vuole maestro di innumerevoli eroi greci (Achille, Giasone, Asclepio, sembra abbia insegnato addirittura a suonare ad Apollo). Profondo conoscitore della medicina, delle erbe, della guerra e di molte altre materie utilissime a qualunque eroe guerriero o semidio che si rispettasse a quei tempi, fu sostanzialmente nella mitologia greca per tutti i ragazzi che volevano affrontare grandi imprese ciò che Yoda è stato per Luke Skywalker in Guerre Stellari.

Mentre rimango sospeso nel tempo all’interno di un luogo magico che tempo non ha, un pensiero si fa largo nella mente. Questi esseri mitologici, metà uomo e metà bestia, col loro carattere violento e libidinoso ci ricordano perfettamente il dualismo dell’uomo, l’animale che ineluttabilmente e a dispetto di tutti gli sforzi che facciamo alberga dentro di noi. Sotto questo aspetto i nostri centauri possono essere assimilati al dio Pan, metà uomo e metà caprone, che col suo demoniaco aspetto era tanto prezioso (anche lui aveva insegnato agli uomini la musica e proteggeva greggi e armenti, oltre ad avere una grande importanza nel culto della fertilità), quanto terribile (anche lui parecchio libidinoso e in grado di emettere urla talmente spaventose da ingenerare nell’uomo il terror panico, che dal suo nome deriva). Forse gli stessi centauri furono anticamente divinità, al pari di Pan, poi declassate ad esseri mitologici. Forse anche la loro dualità buoni/violenti fu sdoppiata lasciando ai centauri in generale la violenza e alla figura di Chirone il compito di rappresentare la saggezza e l’amicizia nei confronti del genere umano. A ben guardare queste figure simboleggiano perfettamente anche la Natura in se stessa, da cui gli uomini hanno tanto da imparare, ma che può essere al tempo stesso violenta e terribile. Lo sono le montagne che saliamo, lo sono i mari che navighiamo, lo sono i boschi che attraversiamo. Non ne possiamo fare a meno e ne percepiamo profondamente gli insegnamenti e la saggezza che donano, eppure sono luoghi da trattare con rispetto e timore, perché in grado di divenire profondamente ostili. Ecco che in un tempo in cui l’uomo stava costruendo appena la sua illusoria sicurezza nella civiltà, nel rassicurante cerchio del villaggio questi esseri erano lì a ricordarci cos’eravamo noi prima di tutto questo, creatori e violenti, profetici e spaventosi, proprio come lo è la natura che ci ha generato, ricca di doni, di conoscenza e terribile. Queste figure sono li a ricordarci che l’ambiente non è mai stato e non sarà mai il nostro giardino e che noi non siamo e non saremo mai diversi dalla natura, per quanto ci sforziamo di sopire e nascondere il nostro lato oscuro e bestiale. Per quanto cerchiamo di addomesticare la natura e renderla innocua agirà sempre attraverso una creazione che passa per esplosione di energia libera e incontenibile, a volte spietata e violenta. Un dualismo che diventa parte di noi e del nostro rapporto con ciò che ci circonda e che forse dovremmo recuperare, almeno in parte per ricordarci chi siamo e da dove veniamo, magari iniziando a interagire con l’ambiente con un maggior rispetto e minore arroganza.

mercoledì 11 marzo 2020





Perché l’aria aperta ci salverà


Cammino. Il tenue bagliore della luna illumina i miei passi. Sotto di me, a valle, si dispiegano le luci dei paesi, quasi specchiando il firmamento. Nel buio che mi circonda brevi fruscii attivano i miei sensi.  Domani mattina al lavoro. “Dovrei essere a casa”, penso. Già la casa. E’lì la sicurezza e la risposta?
Un luogo in cui tornare, certo, ma nel quale non bisogna seppellirsi. Mai. Non siamo fatti per chiuderci tra mura, siamo fatti per uscire, rincorerre profili di monti lontani, salire colline e vedere cosa c’è dietro e poi di nuovo trovare un nuovo orizzonte da varcare. Lo sguardo che si perde e le corse del bambino attraverso i prati. Questo non è solamente un sogno romantico, ma una specifica costruzione della mente umana, un modello e un archetipo. Il bisogno di fuga è bisogno d’aria, di aria nuova e nuovi paesaggi. In questi tempi in cui fattori esogeni ed endogeni alla nostra società spingono a rimanere tappati in casa o in ufficio non possiamo dimenticare che siamo stati creati per altro, per camminare e scoprire. La stessa nozione di casa che abbiamo creato è contraria al nostro vero spirito. Lo ha espresso perfettamente Matteo Meschiari, nel suo scritto tanto poetico quanto provocatorio, Disabitare: “Per due milioni di anni abbiamo vissuto a contatto con il fuori, non nel buio delle grotte, ma in luoghi intermedi tra il chiuso e l’aperto: spalle alla roccia, occhi nella valle. Pochi secoli di civiltà industriale e di urbanesimo ci hanno abituati a vivere in scatole da scarpe. Tutto l’abitare va ripensato da qui, dalla costatazione che ci piaceva e ci piace vivere all’aperto, che facevamo case temporanee, leggere, che avevamo di meno e immaginavamo di più”.
La questione non è cambiare le nostre case, ma abituarci all’idea che appena possibile dovremmo vivere l’esterno, il bosco, la campagna o la montagna, perché è lì che, una volta superati i primi impacci, ci sentiamo veramente a casa. Il valore del cammino e dell’aria aperta apre le porte ad una visione che porta insegnamenti preziosi. Primo tra tutti insegna il valore dell’essenzialità. Le nostre case traboccano di oggetti inutili dai quali viviamo con terrore la separazione anche momentanea. E’ un allenamento anche saper fare a meno e sentirsi a volte più liberi. Non è una scelta francescana, ma un allenamento a saper rinunciare al superfluo che solamente vivere esperienze all’aria aperta consente, perché non possiamo portarci tutto dietro. In questo senso è importante saper lasciare ogni tanto il caldo delle nostre vite, varcare la zona di confort che ci appiatta ed uscire, uscire nel vento, sotto le stelle, riscoprire la nostra vocazione nomade e indomabilmente libera, anche fosse solo per qualche ora.
Chatwin scrisse: “La selezione naturale ci ha foggiati – dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce – per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto.
Se era così, se la “patria” era il deserto, sei nostri istinti erano forgiati nel deserto, per sopravvivere ai suoi rigori, allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considera i suoi confortevoli alloggi una prigione”. 
Ecco perché l’aria aperta ci salverà. Ci farà scoprire, ogni volta, la libertà e l’essenzialità. Ci porterà in dimensioni che non sono quelle domestiche o lavorative, con le loro dinamiche prestabilite e avvilenti, ci metterà di fronte, ogni volta a quello che siamo, alla nostra voglia di gioco e di scoperta, alla purezza del cammino come parte naturale della nostra natura. Ci saprà avvicinare a ciò che siamo stati in passato e che, nonostante tutto non è ancora completamente morto in noi. Per questo alzatevi dal divano e uscite. Lì fuori c’è la parte migliore di voi.
A darmi man forte in questo ragionamento chiamo a testimone Kipling: “Tutto considerato al mondo ci sono solo due tipi di uomini: quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno”. A te la scelta. 

domenica 1 marzo 2020








LE ANTICHE FESTE DEL FUOCO NEL LAZIO



In fondo, a ben guardare, anche nell’epoca di facebook e del tablet rimaniamo pur sempre esseri usciti da un passato ancestrale e oscuro, fatto di paura e credenze. Epoche in cui intensi bagliori illuminavano la tersa e temperata notte tra i monti. Ancora oggi questa non è una notte qualsiasi, tra le alture fuochi accesi nelle le antiche contrade allungano ombre danzanti, uno spettacolo che dall’alto farebbe un’impressione incredibile, probabilmente. Tra i canti e i balli, tra il vino e le risate, inconsapevolmente si perpetra un rito che da millenni si associa alla nostra terra.
Si tratta delle feste del fuoco, ossia di quelle particolari celebrazioni popolari che prevedono l’accensione di falò e fuochi. Ecco che il fuoco, acceso durante la notte splendente di bagliori che rimbalzavano tra le creste montuose dagli abitati vicini, aveva un potere propiziatorio, quando non miracoloso, di purificare i campi, di tenere lontane le streghe, di portare salute a gli uomini e alle  bestie. Oggi che la eco di queste magie non ci sfiora più la conservazione di tali tradizioni rimane essenziale come momento di aggregazione delle nostre comunità, come memoria storica di un passato che ci appartiene come noi apparteniamo a lui. Ma va evidenziato un livello ancora più profondo, perché questi fuochi e queste feste ci fanno tornare indietro ben prima del cristianesimo, e ben al di là dei nostri monti, una rete di fuochi che in queste notti è acceso da millenni in tutta Italia e tutta Europa, che ci stringe in una omogeneità di tradizione spaziotemporale che Frazer ha avuto modo di mettere in luce in modo evidente nel Il ramo d’oro: “ Fin dalla notte dei tempi, in certi giorni dell’anno i contadini di tutta Europa usavano accendere dei falò, per poi danzarci intorno o saltarci sopra. Fonti storiche riferiscono la presenza di queste usanze anche nel Medioevo: e la loro analogia con quelle dell’antichità è una dimostrazione intrinseca del fatto che, per rintracciarne le origini, occorre risalire a epoche di gran lunga anteriori alla diffusione del Cristianesimo. Anzi, la prova più antica della loro esistenza nell’Europa settentrionale ci viene proprio dai tentativi dei sinodi cristiani, nell’VIII secolo, di abolirle come retaggi del paganesimo”. Gli esempi che lo scrittore riporta sono innumerevoli e tutti estremamente simili tra loro per date e tipologie, tanto da escludere completamente ogni sospetto di coincidenze, dalle Ardenne alla Germania, dall’Irlanda alla Francia, Spagna e Italia comprese.
A questa tipologia di festa appartengono, soprattutto e ben vive nelle nostre zone momenti come  la notte di S. Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno o solstizio d’estate. A Segni si accendono le Calecare, ma i falò, con nomi diversi e diverse modalità vengono alimentati un po’ ovunque. Intorno al 19 marzo si accendono invece i fuochi di S. Giuseppe, in numerosissimi centri, con nomi diversi: a Itri si svolge una festa veramente importante per la comunità, i cui preparativi iniziano tempo prima della data del falò, mentre analoghe immagini possiamo trovare a  Priverno (Gonfalone dei favoni), a Sermoneta (festa dei fauni), a Roccasecca dei Volsci (Faone di San Giuseppe), ma sicuramente ogni lettore aggiungerà mentalmente un elemento alla lista. Le foto stesse qui riportate appartengono alla Festa delle Stuzze di Fiuggi, durante la quale, al grido di “Viva S. Biagio” si innalza e si arde un immenso falò. Non è difficile comprenderne e rintracciarne l’origine contadina, l’antichità, che basterebbe da sola a rendere questo tipo di manifestazioni un bene da difendere. Nelle nostre terre il tempo ha trasformato molte cose, a volte distrutto molte altre e la memoria storica di ciò che eravamo che in questi fuochi risplende, tende a sbiadirsi; in questo senso lo spettacolo dei falò è secondario rispetto alla conoscenza di ciò che essi rappresentano. Non è un caso che nell’area pontina queste tradizioni siano rimaste particolarmente vive, considerando il relativo isolamento cui le paludi hanno costretto le comunità più antiche. Ancora una volta una spiegazione univoca dei fenomeni in questione e di questa tipologia diviene sempre rischiosa, quel che è certo è che le due principali teorie, che si rifanno già ad inizio del secolo scorso, sono quella solare e quella purificatoria. Nella prima si tende a vedere un tentativo di ausilio che si dava al sole, per sostentarlo nel suo naturale corso.
 A questo ancestrale scopo si è unito quello purificatore (che successivamente si è specializzato nella protezione e purificazione contro la stregoneria). Un tempo, quando veramente gli abitanti dei monti vivevano dei pochi frutti della terra e un’annata storta poteva significare la fame, la malattia degli animali una rovina, in queste occasioni si univano la fede popolare, le credenze magiche, un momento di svago che ci si concedeva dal lavoro quotidiano. Le donne saltavano sul fuoco per avere figli, gli animali vi erano fatti passare attraverso per proteggerli da morte e malattie, gli uomini si avvicendavano intorno alle fiamme al fine di ottenere buone annate. Oggi che queste tradizioni si vanno pian piano spegnendo e sembrano veramente non avere più alcun senso agli occhi di uomini abituati all’abbondanza ed alle prese con paure decisamente diverse rispetto a quelle delle streghe, appare  veramente singolare questo strano attaccamento a perpetrare nel tempo tali  insensate tradizioni. E se la risposta fosse dovuta al fatto che queste antichissime tradizioni fanno parte di noi molto più di quanto non immaginiamo? Questo retaggio vecchio di secoli fa parte di noi stessi da così tanto tempo che magari giace sepolto sotto strati di esperienze, eppure, come la brace rimane vivo in noi. Non solo, ecco che la diffusione del Cristianesimo, insieme agli ancestrali e comuni elementi dell’umanità hanno dato un volto per alcuni versi incredibilmente comune alla penisola italiana ed in misura minore anche al continente europeo. La conoscenza, lo studio e la continuazione di questi avvenimenti del folklore popolare delle nostre terre ha la sua valenza, oltre che in se, anche perché ci consente di possedere gli strumenti per interpretare realtà molto diverse, in molti casi più simili di ciò che pensiamo.
Realtà che avvicinano le tradizioni di paesi diversi, ma che nello stesso tempo avvicinano anche tradizioni di tempi lontani e ci donano una squarcio di luce nel buio del nostro passato millenario. Ancora oggi portare avanti queste tradizioni significa gettare uno sguardo, furtivo, sfocato e deformato, ma sostanzialmente incredibilmente avvincente indietro nei secoli.