giovedì 18 novembre 2021

 

 SLOVENIA

La tana di Erazem





Non molto distante dalle famose grotte di Postumia, tra le più belle ed estese d’Europa sorge un luogo leggendario la cui storia si intreccia indissolubilmente a quella di un personaggio altrettanto misterioso e affascinante. Tra i tanti castelli (molto ben conservati) che ospita il territorio sloveno, quello di Predjama colpisce di sicuro l’immaginazione per la posizione e l’ingegno architettonico. Si staglia, infatti sul fianco di un monte compenetrandolo perfettamente attraverso una vasta grotta naturale sfruttata abilmente per la costruzione delle strutture. Sebbene vanti una storia molto antica (le prime notizie risalgono al XI secolo), il nostro castello entra nel mito a partire dal 1478, anno in cui l’Imperatore Federico III d’Asburgo nomina barone il prode Erazem Leuger (Erasmo di Leug). Il nostro neo barone, infatti, non perde tempo e inizia da subito a compiere scorrerie a scopo di rapina lungo la strada che da Trieste conduceva a Vienna, rifugiandosi, dopo ogni malefatta proprio in questo imprendibile castello. Come nei migliori romanzi d’avventura, ovviamente le leggende ci spiegano che Erasmo sottraeva ingenti fortune solamente a ricchi e avidi mercanti o a pavidi nobili, per poi sparire come un fantasma senza lasciare traccia. Un nobile brigante di cui all’inizio nessuno sospettava. Ma il nostro eroe si spinse oltre, parteggiando apertamente per gli Ungheresi in una contesa che vedevano contrapposti questi ultimi proprio all’Imperatore d’Austria. Da osservato speciale vennero fuori tutte le sue bravate. Non sappiamo se Federico III ignorasse l’attività di Erasmo o se l’ avesse tollerata fin quando questo non gli si era schierato contro; fatto sta che non sapendo dove fosse nascosto, gli Asburgo misero sulle sue tracce un noto condottiero triestino, con lo scopo preciso di scovarlo, stanarlo e eliminarlo.

Ci vollero alcuni anni prima che l’esercito austriaco riuscisse a individuare il nascondiglio e, considerando imprendibile il castello di Predjama, si convenne che la soluzione migliore fosse quella di cingerlo d’assedio, aspettando il sopraggiungere della fame. Quello che nessuna sapeva, al di fuori degli abitanti era che il castello fosse in parte costruito sfruttando e addentrandosi in una profonda grotta naturale sul fianco della montagna e dalla parte più interna della cavità, un lungo cunicolo nascosto portava dalla parte opposta del monte. Grazie a questo passaggio segreto Erasmo era in grado di uscire nascostamente a procurarsi cibo. La fame, quindi, non arrivò. Anzi, il barone si prendeva gioco dell’esercito nemico inviando al campo doni in cibo (ciliege in tempo di ciliege, agnello per Pasqua). L’assedio, iniziato nel 1484, si protrasse per un anno. L’imperatore era furioso, mentre Erasmo sicuramente si faceva grasse risate alle sue spalle. Iniziarono a circolare nel campo asburgico voci secondo le quali il barone in realtà fosse il diavolo. Il castello, inoltre è dotato di un secondo ponte levatoio interno, che permette di isolare la parte più interna alla grotta, dove ancora oggi si riconoscono una cucina e un focolare (probabilmente usato come fucina) e da dove, guarda un po', parte il famoso passaggio (tuttora esistente) verso la libertà. Non era sufficiente, quindi conquistare la rocca per essere sicuri di mettere le mani sul nobile bandito.

Ma si sa che quello che non può la tattica militare spesso può il denaro. Fu così che gli austriaci riuscirono a corrompere un servitore del barone per aiutarli a metterlo fuori gioco. Il traditore indicò loro il luogo più vulnerabile del sistema difensivo di Predjama e, convenuto un segnale si decise che quando Erazem sarebbe stato in quel punto esatto, una candela sarebbe stata accesa alla finestra stabilita. La fine di questa storia ha un che di inglorioso. Erazem quella sera, dopo cena, chiese permesso ai presenti e si accomodò sulla latrina. La candela si accese e un tenue bagliore illuminò una finestra del palazzo. Una palla ben calibrata e che sapeva dove colpire andò a infrangersi proprio sulla parete di roccia sovrastante la latrina e il barone fu investito da pesanti massi staccatesi dall’impatto, facendo crollare il soffitto. E forse pensando che neanche al bagno si poteva stare in pace trovò una morte beffarda degna delle beffe che aveva messo in pratica ai danni dell’Imperatore (ma forse meno eroica).

Oggi il castello, perfettamente conservato rimane uno dei luoghi più suggestivi della Slovenia, in un susseguirsi di stanze, cunicoli, volte rocciose che spesso si uniscono in un ambiente unico e fortemente evocativo. Un astuto sistema di raccolta delle acque piovane e di stillicidio della roccia corre lungo pareti che si fatica a distinguere se in roccia viva o muratura, mentre un crescente senso di mistero sale nel visitatore mentre si addentra nelle parti più interne della grotta. Ancora oggi, dalla terrazza superiore si scorge nella valle sottostante la piccola chiesa del villaggio e accanto a questa un enorme albero secolare. Si narra che qui la sconsolata promessa sposa di Erasmo abbia fatto seppellire il suo audace, astuto, anarchico amato.



venerdì 27 agosto 2021




Perché la montagna non è un giardino


Negli ultimi periodi mi è capitato con crescente frequenza di leggere articoli e post sui social inerenti all’aumento del numero di incidenti in ambiente montano, spesso causati da mancanza di esperienza e/o equipaggiamento idoneo. Per chi frequenta assiduamente la montagna o per chi con essa ci lavora, questi fatti non sono nuovi. E’ sempre capitato di incontrare o prestare aiuto a persone evidentemente impreparate (anche psicologicamente) a gestire l’ambiente montano. Quello che colpisce è da una parte l’aumento degli “sprovveduti” (si badi bene, gli incidenti in montagna accadono anche a persone espertissime), dall’altra una eco mediatica che si fa sempre più massiccia (con articoli che spesso tradiscono evidentemente la poca conoscenza dell’ambiente da parte di chi scrive). Da questo fenomeno, evidentemente collegato, nascono alcune considerazioni.

E’ innegabile che da qualche anno la montagna ha visto crescere in maniera esponenziale la presenza di fruitori. Le restrizioni alle quali abbiamo dovuto sottostare nell’ultimo periodo hanno accentuato sensibilmente questo trend (centri commerciali chiusi, spiagge cui era difficile accedere, teatri, musei, cinema, palestre scomparsi dalla nostra esistenza per un anno). Un maggiore afflusso è un bene soprattutto per le economie dei luoghi di montagna, ma anche per una più diffusa conoscenza della bellezza che le nostre montagne custodiscono. E allora dove sta il problema? Il punto è che la crescente affluenza ha generato, soprattutto nei luoghi storicamente più famosi un effetto circolare pericoloso a livelli simbolico. Da una parte, infatti le più note località montane, quelle per intenderci dove ci sono montagne alte e tanti km di spettacolari sentieri da percorrere, per far fronte nel migliore dei modi ad un’utenza sempre più ampia, hanno, giustamente, fatto tutto il necessario per rendere fruibile e sicuro il proprio territorio. Questo è successo nel tempo, non certo oggi. Ecco quindi che i sentieri sono perfettamente manutenuti e segnalati in maniera tale per cui è quasi impossibile già solo avere il dubbio su dove si sta andando. In alta quota si trova una rete di rifugi in cui poter dormire, riposarsi e mangiare (e bene anche), con il wifi, i parchi giochi per i bambini fuori. Fino a 3000 metri si incontrano graziose panchine in legno, ponticelli per superare i torrenti, staccionate come parapetti alle viste mozzafiato (instagrammabili, si direbbe). E’ un male tutto questo? Ovviamente no, anzi è valorizzazione del territorio, ampliamento della fruibilità, aumento della sicurezza e dell’estetica del territorio. Ma qui vengono le note dolenti, ossia l’aumento vertiginose dei frequentatori della montagna, molti di loro poco avvezzi alle alte quote e agli ambienti montani. Il pericolo è che passi per alcuni la percezione che la montagna sia un meraviglioso, curato, sicuro giardino in cui ammirare e fotografare spettacolari viste. Cosa che la montagna non è e non sarà mai. Innanzi tutto gran parte delle montagne italiane (dagli appennini alla Calabria, comprese molte zone alpine e prealpine) non sono affatto così. La rete sentieristica è valida ovunque, ma non è quasi mai a prova di improvvisazione. I punti di appoggio possono essere scarsi e sicuramente molto meno prodighi di servizi. Spesso la montagna ha l’aspetto di uno stupendo, grandioso ambiente brullo e ostico, pieno di pericoli, in cui stare attenti a tantissimi fattori (e non parlo degli animali, poveretti), che vanno dal terreno al tempo, dall’esposizione alla difficoltà di orientamento. Per affrontare con una ragionevole sicurezza questi ambienti si deve essere sufficientemente preparati, oppure affidarsi a qualcuno che lo è (guida, amico con una buona esperienza), altrimenti si può rischiare grosso. Inoltre anche i percorsi più accuratamente tenuti e tracciati nascondono insidie che si deve conoscere. Perché poi succede di trovarsi al punto di inizio di una intera rete sentieristica dolomitica e sentirsi chiedere da una turista per la quale potrei essere chiunque: “da che parte devo andare per fare un’escursione?” così, una a caso.

La montagna non è un giardino neanche dove ci somiglia. E’ un luogo di prudenza e di conoscenza, un ambiente ostico e complesso al quale avvicinarsi in punta di piedi e con tantissimo rispetto. L’improvvisazione può essere la risposta ad eventi inaspettati, non la base dalla quale partire.

Quindi fanno male a segnalare così bene i sentieri? Ovvio che no. Il problema è prendere atto di un nuovo approccio alla montagna, molto più generalista e prendere adeguate misure per aumentare il grado di consapevolezza di chi si avvicina a questo spazio magico e complesso. Far passare messaggi che aiutino un pubblico più ampio possibile a comprendere non soltanto le regole del gioco per la propria sicurezza, prima tra tutte la capacità di valutare la scelta del percorso in base alla propria esperienza, ma anche le norme di comportamento adatte al rispetto dell’ambiente che si attraversa, che sono fatte di attenzioni differenti da quelle che siamo abituati a osservare in altri contesti (urbano o rurale), perché specifiche di uno spazio limite, comunque e sempre estremo, spesso di confine. In fondo quello che mi piace pensare è che un’escursione in montagna (anche a bassa quota) sia sempre un’avventura e come per ogni avventura, piccola o grande, bisogna essere preparati.

mercoledì 9 giugno 2021

 




La radura del Prunno, le fonti e il sacro


La famosa radura del Prunno, sull’Altopiano di Asiago non è certo un luogo segreto. Anzi, nonostante non sia più attrezzata come un tempo rimane ancora uno dei posti più frequentati dell’Altopiano, dove si tengono manifestazioni e si incrociano numerosi sentieri e facili passeggiate. Il suo nome non deriva da nulla che abbia a che fare con l’albero del pruno o simili, ma dalla presenza nell’area di una fonte. In cimbro, effettivamente la parola fonte è Prunn. Se si cammina distrattamente lungo il sentiero o si scorazza nella radura si potrebbe non trovarla, ma è là, abbandonata e dissestata. Eppure un piccolo corridoio di lastre calcaree e scalini, ci fanno ancora immaginare una sistemazione quasi monumentale di questa sorgente. Su un altopiano carsico come questo le fonti in quota sono rare, quindi a maggior ragione preziose. Tanto preziose da dare il nome all’area intera e a volte da diventare sacre. Una volta ho visitato un luogo sacro aborigeno in Australia, nelle Blu Mountains che si chiama Katoomba. Il nome significa “luogo delle acque che precipitano”, per la presenza di una spettacolare cascata. Così il binomio tra territorio e fonte d’acqua diviene palese e inscindibile attraverso la toponomastica, che conserva il ricordo dell’importanza di questi punti per la sopravvivenza umana. Oggi non avrebbe senso, l’acqua esce dal rubinetto, ma c’è stato un tempo (e neanche troppo lontano) in cui per tutte le civiltà umane un punto d’acqua aveva importanza campale per la comunità. Le sorgenti e le fonti “nominavano” la zona, venivano curate e rese veri e propri monumenti della vita. L’aspetto funzionale e pratico camminava di pari passo con quello sacrale e estetico. Katoomba non è diverso da Prunno. La magia dell’acqua ispiratrice della vita viene sottolineata e diventa la ragione essenziale per cui conoscere e riconoscere quel luogo.

Il fatto che il Prunno fosse frequentato come stazione di caccia stagionale già dal Paleolitico (il Riparo Battaglia è una stazione sottoroccia che ha restituito un gran numero di manufatti e resti di cacciagione), non fa che confermare tale centralità. La presenza di riparo e acqua sono stati i primi “lussi” dei nostri antenati. I luoghi in cui sgorgava l’acqua sono stati tra i primi luoghi sacri, con un culto specifico già in epoche remotissime e spesso sono rimasti tali a discapito dei secoli e delle civiltà. Spesso lo sono ancora oggi. Ma in fondo, che abbia preso o no una connotazione religiosa ufficiale ogni fonte d’acqua ha una sua sacralità intrinseca non per forza codificata. La religione greco/romana aveva superato questo problema assegnando indiscriminatamente ad ogni fonte una ninfa. Riproducendo addirittura sorgenti nelle grotte artificiali come luoghi sacri (i ninfei). Le tradizioni anche posteriori ci parlano sempre di esseri acquatici che “presidiano” fonti e corsi d’acqua, come le Anguane (che probabilmente dalle ninfe in qualche modo derivano), particolarmente presenti in ques’area.

Il grande storico delle religioni Mircea Eliade scriveva: “Chi fra i Greci, poteva vantarsi di conoscere i nomi di tutte le ninfe? Erano le divinità di tutte le acque correnti, di tutte le sorgenti, di tutte le fonti. Non le ha prodotte l’immaginazione ellenica: erano al loro posto, nelle acque, fin dal principio del mondo; dai Greci ricevettero forse la forma umana e il nome. Sono state create dallo scorrere vivo dell’acqua, dalla sua magia, dalla forza emanata, dal mormorio delle acque”. Ecco forse questa frase spiega meglio di qualunque altra il rapporto tra uomo e fonte. Spiega perché ogni corso d’acqua, nel luogo in cui dal grembo della terra esce alla luce del sole, venga spesso monumentalizzato, sottolineato. Non fa eccezione il Prunno dove, pur nella spartana povertà dell’utilizzo delle classiche lastre calcaree e nella rovina dell’abbandono, questo intento si percepisce. Come si percepisce l’antica sensazione di rispetto e tranquillità che solamente una fonte che sgorga nel bosco sa dare.


venerdì 28 maggio 2021

 




Le pievi di campagna e il senso dell’accoglienza e del viaggio


Un giorno si decide, un giro enogastronomico della Valpolicella. Partiamo senza una meta precisa, girovagare in auto, fermarci in qualche cantina, degustare. Mentre ci aggiriamo per questo splendido territorio un lontano campanile attira la mia attenzione. Ci avviciniamo: è la pieve di San Floriano. Internamente si presenta non dissimile a tutte molte chiese già visitate, frutto di restauri e sovrapposizioni più o meno antiche. Ma è all’esterno che la struttura rende al massimo. Una bellissima chiesa in stile romanico impreziosita su uno dei lati lunghi da un bellissimo portico a L. Sulle mura una teoria di materiali di recupero appartenuti a sepolture e strutture di epoca romana, sotto i portici i muri segnati da un fiorire di parti di affresco alternate e sovrapposte a incisioni e scritte di epoche diverse. 

A cosa serve quel grande porticato in una chiesa? In realtà a molte cose. Un luogo riparato dove svolgere attività legate alla chiesa, ma anche dove incontrarsi prima e dopo la messa. Eppure proprio quel luogo riparato, così apparentemente scontato ha avuto un importante ruolo nella vita del passato. Aveva anche la funzione di offrire protezione e riparo ai viandanti, soprattutto in epoca medievale, che percorrevano le strade di campagna. La viabilità medievale era molto intensa e allo stesso tempo lenta. Si viaggiava a piedi o a cavallo e i viaggi potevano durare mesi o anni. Si muovevano soprattutto pellegrini o mercanti, ma anche artigiani, artisti. Questo traffico rese necessario lo sviluppo di una rete di luoghi dove i viaggiatori potessero trovare ricovero. I vari regni organizzarono così poste, i privati aprirono locande; ma la parte del leone in questo senso lo fece la chiesa, grazie alla sua capillare diffusione in tutto l’occidente. Nacquero così ospedali (ospizi), foresterie in abbazie e conventi ed anche le pievi, spesso, furono pensate per garantire un rifugio di fortuna ai viandanti. Ma cos’era una pieve?

Il termine Pieve deriva da PLEBS, popolo, cioè la comunità dei battezzati. Durante il medioevo si intende sia la comunità dei fedeli, sia il distretto territoriale su cui viveva la comunità, ma anche l’edificio ecclesiastico che possedeva il diritto di battesimo e sepoltura, solitamente retto da un sacerdote chiamato PIEVANO.

Che queste unità religiose e amministrative fossero posizionate in luoghi strategici per la viabilità è un fatto intuitivo, ma osservate bene le loro mura.
Conservano spesso memoria di una storia che le precede. Inglobano materiali di recupero di epoche più antiche, provenienti da monumenti funerari di epoca romana, capitelli di antichi templi. Così se è vero che la viabilità medievale ricalcava quasi interamente la viabilità romana (anzi, in realtà utilizzava proprio quella), i punti di sosta strategici dovevano necessariamente essere simili. Un viandante sorpreso dal maltempo o dalla notte, seguendo la vista del campanile poteva contare almeno su un luogo riparato nel quale riposare. Un utilizzo che continuerà ancora per molto tempo, simbolo di un mondo lontano dal nostro comune modo di pensare. Un mondo dove l’ospitalità aveva un ruolo sacro ed era un fatto quotidiani nella vita delle persone. Un mondo in cui mettersi in viaggio significava sempre iniziare un’avventura e dove spesso ci si incamminava senza sapere esattamente dove ci si sarebbe fermati, in che condizioni, sotto quale tetto. Così, mentre guardo questo portico da turista moderno, pronto a recarmi a pranzo in una azienda vinicola di pregio, rivedo le centinaia di persone, viandanti e commercianti che sotto quel portico hanno trovato rifugio per una notte. Conforto dopo un viaggio spossante sotto il sole che brucia o la pioggia. Penso alle loro avventure, ma anche alle disavventure. Penso che in fondo dovremmo essere un po' più liberi di osare, che ci hanno insegnato a programmare, ad andare sul sicuro. Vivere nella comodità. Forse a volte dovremmo solo partire senza sapere dove dormiremo la notte successiva.

lunedì 24 maggio 2021

 




La voragine Giacominerloch, le anguane, la terra e l’acqua


Un territorio nasconde sempre luoghi segreti e suggestivi che rimangono fuori dalle mete più frequentate e famose. Questo perché poco pubblicizzati, o marginali,difficili da raggiungere o magari un po' pericolosi. Questa è un’ode a questi luoghi, perché spesso custodiscono una storia o delle storie che rimangono nella memoria delle persone del luogo, magari solo degli anziani. Posti suggestivi conosciuti agli esperti o a una minoranza di persone. E’ il caso del Giacominerloch, sull’Altopiano di Asiago. Scoperto per caso, invisibile ai grandi flussi turistici è una profondissima cavità carsica che si sviluppa per circa 600 metri nelle viscere della terra. Conosciuto soprattutto da gruppi speleologici ed esplorato ufficialmente a partire dal 1936 ad opera del Gruppo Grotte del CAI di Vicenza, lo sprofondo è giustamente poco pubblicizzato perché, ovviamente, pericoloso. Ne ho sentito parlare da amici, l’ho visitato, mi sono incuriosito e ho avuto modo di trovare almeno due antiche leggende che aleggiano sullo sprofondo. Due storie simili, una più complessa, una più semplice.

Nella versione più immediata si narra che visitando il Giacominerloch all’alba si può scorgere una ragazza, metà umana e metà Anguana che ogni notte esce dalle viscere della terra, per poi essere costretta a rientrare nella voragine al canto del gallo. In quella più complessa si narra la vicenda di un tempo senza tempo. I viandanti che percorrevano la strada di Cesuna udivano strani lamenti di donna. Nessuno aveva il coraggio di scoprire di chi fossero. Già nessuno, tranne l’impavido boscaiolo Josel. E’ lui che una notte di luna piena, di ritorno dalla festa di S. Marco segue la voce e si ritrova sul bordo della profonda voragine. Si distende e chiede “chi sei?”. La voce lontana risponde. Si chiama Giacomina e proviene dal regno dei laghi e delle grotte; il suo unico desiderio è di rivedere l’Altopiano. Il nostro eroe non perde tempo e cala una corda. La ragazza sale, ha la pelle d’argento e i capelli verdi, ma l’incanto dura poco, al primo canto del gallo scompare, risucchiata di nuovo nell’orrido. Josel non si perde d’animo, si cala nella voragine ritrovandosi su una spiaggia, in un mondo sotterraneo fatto di laghi e fiumi. Qui ritrova Giacomina che gli narra la sua storia. Furono gli elfi a rapirla, per vendetta contro suo padre, valente boscaiolo che aveva abbattuto gran parte della foresta di Cesuna costringendo gli elfi a fuggire sotto terra. Ora il suo aspetto tradisce il suo destino, si sta trasformando in un’anguana. Quindi come fuggire? I due attendono la primavera e lo scioglimento della neve che scrosciando nel sottosuolo li trasporta fuori. Josel blocca i piedi di Giacomina con fango e alghe per impedire che venga trascinata indietro. Sono salvi, ma si accorgono di essere finiti in Val D’Astico, ai piedi dell’Altopiano. Quando risalgono verso Canove tutto è cambiato. Sono cambiati sentieri in strade, i boschi in pascoli, le persone hanno volti sconosciuti. Il tempo là sotto è relativo e cammina a passo molto più lento che in superficie, chissà quanto tempo i due hanno passato nel regno sotterraneo delle acque.

Le due storie hanno alcuni punti in comune: la voragine, innanzi tutto, l’alba e il fatto che la ragazza sia mezza anguana. Ma cosa sono quindi le anguane? Si tratta di creature della mitologia alpina e prealpina, bellissime di aspetto, con la pelle chiara come la luna e i capelli variamente colorati. La loro natura le fa risalire a ninfe delle fonti alpestri, vivono in luoghi nascosti, nel fondo di valli strette e scure, dove dalle rocce sgorgano sorgenti. All’alba si rifugiano all’interno di umide caverne ed escono solo di notte. Il loro canto melodioso ha la capacità di stregare gli uomini, trascinandoli nei gorghi dei torrenti facendoli annegare. Una particolarità di grande suggestione è la convinzione antica che i loro occhi fissassero le persone dal fondo delle pozze.

In queste storie si rintracciano tutte le caratteristiche peculiari di un archetipo antico. L’acqua fonte di vita, ma strettamente legata al sottosuolo, all’oscurità. Le profonde voragini e le caverne viste come accessi privilegiati al mondo sotterraneo, sempre precluso o pericoloso per gli uomini. L’esistenza stessa di queste figuri femminili ci riporta a tempi remoti e si ricollega alla figura della Signora degli Animali, madre morale di tutte le ninfe, in parte riecheggiata dalla figura spiccatamente italica di Diana, protettrice del parto, delle fonti e di tutto ciò che di vitale esce alla luce dall’oscurità della terra.

L’abisso, quindi diviene il collegamento naturale con un mondo ctonio carico di energie, quindi pericoloso ed incomprensibile. Ogni grotta o voragine (loch, in cimbro, cioè “buco”) ha ereditato dal passato una dote di leggende ed un alone di magia, quale luogo prediletto per incontrare potenze superiori, esseri sovrannaturali. E’ così per il Tanzerloch, la Stonhaus e molti altri, compreso il Giacominerloch (buco di Giacomina), con il suo carico di mistero che ancora oggi conserva, nonostante le numerose esplorazioni.