domenica 24 maggio 2020





In Australia tra i Kuku Yalanji, figli della foresta


La navigazione di ritorno è molto più calma rispetto a quella dell’andata. Il catamarano naviga tranquillo in alto mare. Siamo di ritorno dall’isola disabitata di Lady Musgrave, in piena barriera corallina a largo della costa orientale dell’Australia  (se vuoi leggere l’avventura a Lady Musgrave clicca qui  https://laricercadellessenziale.blogspot.com/2020/01/sullisola-deserta-della-barriera.html). Facciamo conoscenza con due insegnanti australiani che sono qui per fare snorkeling. Julie e Graham sono esattamente il tipo di professori che in Italia facciamo fatica ad avere, curiosi, piacevoli e a modo loro avventurosi. Mentre conversiamo amabilmente (tra un tuffo ed un altro nelle soste del catamarano) ci parlano di un luogo che li ha profondamente colpiti. Ne descrivono con toni entusiastici il fascino naturalistico e culturale. Non avevamo mai sentito parlare della Mossman Gorge, né, ovviamente era minimamente in programma la visita. Decidiamo di cambiare piano e andare.

L’ampio parcheggio lascia intravedere in fondo una struttura futuristica a vetrate. Il centro visite è chiaramente un progetto ambizioso di valorizzazione della cultura aborigena. La Mossman Gorge è una profonda incontaminata gola aperta faticosamente da un limpido fiume attraverso le montagne. E’ la patria del popolo dei Kuku Yalanji, che hanno vissuto qui fin da tempi remoti. All’appuntamento per la visita si presenta un bus guidato da un aborigeno obeso;  faccio mente locale e mi guardo intorno, la percentuale di obesi è impressionante.  Mi viene in mente ciò che dice Jared Diamond a proposito dell’aumento di obesità, malattie cardiovascolari e ipertensione tra gli abitanti indigeni della Nuova Guinea: il fisico dei popoli che per secoli hanno  condotto una dieta pressoché priva di sale e zucchero non ha sviluppato strategie per sintetizzarli in modo efficiente come i popoli industrializzati; l’adozione di uno stile di vita occidentale diventa una vera e propria epidemia di problemi di salute. Mentre il bus scalcinato ci conduce verso l’inizio della gola passiamo accanto ad una sorta di baraccopoli recintata fatta di penosi prefabbricati bianchi. I figli della foresta ora vivono qui, nel mezzo di una sterile terra bruciata dal sole a ridosso di quella che fu la loro casa originaria, per gentile concessione della politica governativa.
Ma non perdiamoci d’animo. All’inizio della gola viene a recuperarci la nostra guida (magra) dal nome impronunciabile (figuriamoci a scriverlo). Da questo istante viviamo tutta un’altra storia.  Ricorda vagamente Bob Marley, ma parla con passione della sua gente, della sua terra. La Mossman Gorge è una ripida gola coperta di una vegetazione lussureggiante, percorsa da un torrente che salta tra le rocce coperte di muschio. Un luogo selvaggio. I Kuku Yalanji chiamano la foresta “Madre” e ci chiedono di entrare con rispetto. Prima di incamminarci ci sottopongono alla cerimonia del fuoco. Dobbiamo girare varie volte intorno ad un fuoco acceso lasciandoci avvolgere dalle spire del fumo. Serve ad allontanare gli spiriti cattivi, dice lui, ma io sospetto che in realtà ha il solo scopo di toglierci l’odore di civiltà di dosso. Poi, con voce ferma e tonante, avverte lo Spirito della Foresta che questi sconosciuti sono con un suo figlio (i Kuku si definiscono figli della foresta) e stanno camminando con lui da amici. Per questa gente la foresta è contemporaneamente un supermercato, una casa, una madre e un’università. Mentre camminiamo esplorando la gola, guardingo su un tronco, ci osserva uno splendido Rainforest Dragon, grande rettile arboreo della famiglia Hypsilurus.
Intanto scopro quanto un luogo sacro possa essere semplice. Due grandi rocce che poggiano l’una sull’altra lasciando un varco che ricorda un portale. In questo luogo i figli della foresta celebrano le quattro cerimonie più importanti della tribù: nascita, iniziazione, matrimonio e morte. L’iniziazione in particolare riveste un ruolo fondamentale, segna il passaggio all’età della responsabilità personale e avviene intorno ai tredici anni. Arriviamo al fiume. I Kuku hanno un rapporto simbiotico con questo ambiente, si lavano e bevono la sua acqua. La nostra guida ci invita caldamente a berne (probabilmente sa che in molti si rifiuterebbero) come gesto di condivisione il popolo e con l’ambiente in cui sono immersi in una unità difficile da comprendere. E mentre beviamo, in un attimo di distrazione lui si è già spogliato e sta facendo il bagno nel fiume, la sua giornata di lavoro è finita, la foresta può riprendersi finalmente suo Figlio.

venerdì 24 aprile 2020













BREVE STORIA LETTERARIA (E MAGICA) DELLA SALAMANDRA

(Monte Olimpo, Grecia)


Il sentiero corre ripido giù dalle pendici nebbiose del massiccio. Scendendo dal Monte Olimpo il pensiero va alla carica mistica e mitologica che questo luogo ha sempre ispirato nella mente degli uomini. Qui generazioni di greci hanno immaginato la patria delle divinità, qui hanno inizio o si svolgono la maggior parte di quelle storie che sono entrate a far parte della mitologia e della pratica religiosa del mondo Mediterraneo dando origine alla nostra cultura. Non è difficile immaginare perché proprio qui. La cima dell’Olimpo è quasi perennemente coperta da bianche nubi, fitte nebbie scendono a banchi tra i pini loricati balcanici e mentre coprono completamente Myticas, la vetta che abbiamo da poco lasciato, immergono le gole e le foreste più sotto di un’atmosfera magica e solenne. Una tenue pioggia rumoreggia sulla roccia, sull’erba, sugli aghi raccolti a grappoli dei pini. Ancora più a valle ruscelli impetuosi si ingrossano e corrono veloci precipitando in cascate dal suono armonioso. Questo luogo così sospeso tra le nebbie del tempo è pieno di vita, anche se tutto sembra immobile, iniziato un tempo remoto e ancora all’inizio. La vita si risveglia tra le umide rocce e veloce traversa il nostro sentiero una splendida salamandra pezzata. Guizza con fare interdetto (siamo noi gli intrusi) inconfondibile nel suo corpo nero chiazzato di macchie gialle ben evidenti. I colori sgargianti sono il suo monito ai malintenzionati: sono tossica, non mangiatemi. E tossica lo è veramente, visto che secerne da apposite ghiandole una sostanza fortemente irritante per le mucose. Poi ne scorgiamo un’altra, più sotto un’altra ancora, sembra si siano date appuntamento per un flashmob.

Rimango attonito, non ne avevo mai viste così tante e mentre osservo da vicino la bellezza della colorazione di questi esserini inizio a studiare la sensazione che cresce nella mia testa di aver già avuto a che fare con questa stupenda creatura, ma dove? Rimango per tutta la discesa con quel pensiero fisso nella testa: dove?dove? Poi all’improvviso, con quel sorriso tutto mentale che si ha quando un pensiero che nasce indistinto si trasforma in un “ma dai!”, ricordo. Qualche tempo prima ero incappato nei racconti di un certo Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore/musicista dell’ottocento fuori di testa che mi avevano colpito per assurdità e originalità. In uno di questi, Il vaso d’oro, il protagonista si trovava invischiato in una faccenda magico/alchimistica che si conclude con la scoperta di aver avuto a che fare, fin dall’inizio della storia, con uno stregone che in realtà è….una salamandra. Ma perché proprio una salamandra? Perchè non un drago o un unicorno? Me lo ero chiesto già durante la lettura di quel libro che poi ho perso e mai più trovato. Nel racconto si evince perfettamente che la salamandra è rivestita di una carica magica, un animale simbolo di un’antica tradizione. E tornando indietro del tempo scopriamo quanto questo esserino apparentemente umile abbia ricoperto nei secoli una veste importantissima. Hoffman aveva probabilmente attinto ad tradizione alchemica. Secondo questa tradizione, attiva fino al 1700, le salamandre erano associate a mitici esseri chiamatati elementali del fuoco e per questo presi a simbolo del processo alchemico di calcinazione (riscaldamento ad alta temperatura per il tempo necessario utile ad eliminare tutti gli elementi volatili in una sostanza). Ecco che il nostro simpatico anfibio, che troviamo sempre in luoghi umidi e con presenza di acqua viene sorprendentemente associato al fuoco. Ma perché?

Bisogna andare molto indietro nel tempo per trovare tracce della nascita di questa fortuna e comprendere un po' la genesi di questo strano accoppiamento. In epoca medievale questa tradizione aveva preso già piede, tanto che un fine e onesto osservatore come Marco Polo, avendo viaggiato nel lontano oriente e avendo visto di persona tante e tante cose, ne Il Milione si sentiva in dovere di spiegare un malinteso, parlando di un tessuto fatto con l’amianto e quindi resistente al fuoco, spesso confuso con l’animale: “e queste sono le salamandre, e l’altre sono favole”. A smentire evidentemente la credenza diffusa che le salamandre fossero animali in grado di resistere al fuoco. Ed effettivamente in quegli anni questa idea era piuttosto diffusa se il quasi contemporaneo Brunetto Latini, grande intellettuale, ma non esattamente uno scienziato scriveva, nel suo Li livres dou tresor (metà del 1200): “E sappiate che la salamandra vive in mezzo alla fiamma del fuoco senza dolore e senza danni al suo corpo, ma spegne il fuoco grazie alla sua natura”. Abbiamo aggiunto quindi un notevole dettaglio, ossia che non solamente la salamandra vive nel fuoco, ma riesce a spegnerlo. Un ulteriore tassello di questa storia si ritrova qualche anno prima. Siamo nell’XI secolo e una misteriosa lettera arriva nelle mani dell’imperatore bizantino, di Federco II di Svevia e anche del Papa. In questo manoscritto un misterioso Re, governante di un altrettanto misterioso e sconosciuto paese cristiano posto lontano in Asia, alle spalle della parte del mondo musulmano e che si firma Prete Gianni, chiede di aprire vie diplomatiche con l’Europa cristiana e descrive i suoi fantastici possedimenti traboccanti di meraviglie. Tra queste “… vicino alla zona torrida vi sono dei vermi che nella nostra lingua si chiamano salamandre. Questi vermi possono vivere solo nel fuoco e si circondano di una sorta di pellicola, come gli altri vermi che producono la seta. Questa pellicola è lavorata con cura dalle donne del nostro palazzo e ne ricaviamo vesti e panni per tutte le necessità della nostra eccellenza. Questi panni si lavano solo in un fuoco che arda violento”. In questo caso la nostra povera salamandra è diventata addirittura un verme, ma rimane ben salda l’opinione che viva nel fuoco. Ma non bisogna credere che questa idea sia nata nelle lontane lande mitiche dell’Asia. Anzi è molto probabile che si sia diffusa lontano attraverso la cultura classica greca e latina, visto che già in epoca romana l’onnipresente Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale ci spiegava che la salamandra “è tanto fredda che al suo contatto il fuoco si estingue non diversamente dall’effetto prodotto dal ghiaccio”. Quindi in origine non vive nel fuoco, ma la sua straordinaria (e del tutto falsa) resistenza al fuoco ha dato adito a farle prendere residenza tra le fiamme, credenza diffusa nel medioevo e ripresa poi in chiave simbolica con l’avvento dell’alchimia, fino ad essere utilizzata nei racconti fantastici dell’800.

Guardo di nuovo il piccolo animale che fuggendo si dirige verso il bordo del sentiero per cercare di nuovo il ruscello, suo habitat naturale. Quanta storia e quante storie si porta dietro inconsapevole. Pagine di mito, scienza, favola e credenze scritte in suo onore. Migliaia di anni di stupore, migliaia di occhi che nel tempo lo hanno osservato favoleggiando sulle sue capacità. Un omaggio al mondo che ci circonda che non ha mai finito di meravigliarci anche con gli esseri più piccoli e meno appariscenti, di cui, almeno per me e per oggi tu, piccola salamandra sei il simbolo perfetto.


giovedì 26 marzo 2020







Perché i centauri ci ricordano che siamo bestie

(Pelio, Grecia)


La penisola del Pelio è un luogo poco conosciuto al turismo internazionale, ma è forse uno dei più affascinanti di tutta la Grecia. Un promontorio che si sporge nel mare coperto da foreste lussureggianti attraversate da sentieri che spesso portano a spiagge isolate dalla sabbia fine e dalle acque calde e cristalline. Sulle coste qualche località balneare e nell’entroterra sperduti villaggi montani poco popolati  antichi quanto l’uomo. Ed è proprio mentre mi aggiravo senza meta per uno di questi villaggi chiamato Milies, che mi imbatto nel tipico cartello a forma di freccia che indica un sentiero, il segnale indica solennemente: Grotta del Centauro Chirone. Non avevo in programma escursioni, ma come si fa a resistere ad un richiamo del genere? Imbocco il sentiero che piano piano scende dal centro abitato verso le campagne, costeggiando una buona parte del villaggio ormai spopolata e con edifici in rovina. Improvvisamente mi ricordo di aver letto che nella mitologia il Pelio era famoso proprio perché qui vivevano i Centauri. Tutti ricordiamo dalle scuole che questi esseri particolari erano metà uomini e metà cavalli, ma  a parte questo? In realtà le loro gesta più famose son abbastanza poco edificanti. Erano considerati esseri selvaggi e violenti, poco abituati al rispetto delle regole civili e di conseguenza pericolosi. La loro bravata maggiore ha un peso abbastanza importante nella mitologia tanto da meritare il nome di centauromachia (battaglia dei Centauri) e inizia con una sbronza. Il buon re Piritoo (umano) organizza le sue nozze con la fidanzata Ippodamia e decide di invitare, oltre a parecchi eroi greci festaioli, anche i Centauri, che iniziano immediatamente a bere in maniera spropositata. Uno di questi, Eurito che evidentemente aveva la dote comune a molti di diventare molesto quando si ubriaca, pensa bene di offendere il padrone di casa e tentare di violentare la sposina. Gli umani (che immaginiamo altrettanto alticci) non la prendono bene ed inizia una rissa (i matrimoni si rovinavano anche allora), che degenera in breve in una vera e propria battaglia armi in mano. Alla fine gli uomini ebbero la meglio e i Centauri furono costretti ad abbandonare la Tessaglia (v. anche Ovidio, Metamorfosi XII, 210 ss). Ovidio, sulla scia di Omero, di questi simpatici guastafeste ricorda solamente il nome di Eurito, mentre in una composizione attribuita tradizionalmente a Esiodo, Lo scudo di Eracle, si fa menzione anche ad altri compari del suddetto: Petreo (che significa rupestre), Asbolo (Fuliggine), Arcto (Orso), Urio (Montano) , Mimante, Perimede, Drialo (Quercia).
E’ ottobre, il sentiero attraversa boschi con incredibili accoppiamenti di frutti,  castagne accanto a fichi. Poi  prosegue a lungo fino al mare, ma una deviazione indica che sono quasi arrivato. La grotta è un’apertura larga e bassa, attraverso la quale si accede ad un’ampia cavità fresca e ombrosa composta da un unico locale. Al centro di questa qualche devoto ad antichi culti ha posizionato una grande spirale di sassi con al centro fiori ormai secchi. Sembra più un’istallazione di Land Art, ma rimanendo qualche minuto in silenzio al suo interno ne percepisco appieno la sacralità ed un rispetto tanto antico quanto profondo. Così la tradizione vuole che qui abitasse Chirone. Bene, se abbiamo detto che i centauri erano violenti ed insolenti, lui rappresenta l’eccezione. Figlio di Crono, era famoso per la grandissima saggezza, nonché per essere buon amico degli uomini (soprattutto di Peleo). La sua gloria imperitura è dovuta al fatto che la tradizione lo vuole maestro di innumerevoli eroi greci (Achille, Giasone, Asclepio, sembra abbia insegnato addirittura a suonare ad Apollo). Profondo conoscitore della medicina, delle erbe, della guerra e di molte altre materie utilissime a qualunque eroe guerriero o semidio che si rispettasse a quei tempi, fu sostanzialmente nella mitologia greca per tutti i ragazzi che volevano affrontare grandi imprese ciò che Yoda è stato per Luke Skywalker in Guerre Stellari.

Mentre rimango sospeso nel tempo all’interno di un luogo magico che tempo non ha, un pensiero si fa largo nella mente. Questi esseri mitologici, metà uomo e metà bestia, col loro carattere violento e libidinoso ci ricordano perfettamente il dualismo dell’uomo, l’animale che ineluttabilmente e a dispetto di tutti gli sforzi che facciamo alberga dentro di noi. Sotto questo aspetto i nostri centauri possono essere assimilati al dio Pan, metà uomo e metà caprone, che col suo demoniaco aspetto era tanto prezioso (anche lui aveva insegnato agli uomini la musica e proteggeva greggi e armenti, oltre ad avere una grande importanza nel culto della fertilità), quanto terribile (anche lui parecchio libidinoso e in grado di emettere urla talmente spaventose da ingenerare nell’uomo il terror panico, che dal suo nome deriva). Forse gli stessi centauri furono anticamente divinità, al pari di Pan, poi declassate ad esseri mitologici. Forse anche la loro dualità buoni/violenti fu sdoppiata lasciando ai centauri in generale la violenza e alla figura di Chirone il compito di rappresentare la saggezza e l’amicizia nei confronti del genere umano. A ben guardare queste figure simboleggiano perfettamente anche la Natura in se stessa, da cui gli uomini hanno tanto da imparare, ma che può essere al tempo stesso violenta e terribile. Lo sono le montagne che saliamo, lo sono i mari che navighiamo, lo sono i boschi che attraversiamo. Non ne possiamo fare a meno e ne percepiamo profondamente gli insegnamenti e la saggezza che donano, eppure sono luoghi da trattare con rispetto e timore, perché in grado di divenire profondamente ostili. Ecco che in un tempo in cui l’uomo stava costruendo appena la sua illusoria sicurezza nella civiltà, nel rassicurante cerchio del villaggio questi esseri erano lì a ricordarci cos’eravamo noi prima di tutto questo, creatori e violenti, profetici e spaventosi, proprio come lo è la natura che ci ha generato, ricca di doni, di conoscenza e terribile. Queste figure sono li a ricordarci che l’ambiente non è mai stato e non sarà mai il nostro giardino e che noi non siamo e non saremo mai diversi dalla natura, per quanto ci sforziamo di sopire e nascondere il nostro lato oscuro e bestiale. Per quanto cerchiamo di addomesticare la natura e renderla innocua agirà sempre attraverso una creazione che passa per esplosione di energia libera e incontenibile, a volte spietata e violenta. Un dualismo che diventa parte di noi e del nostro rapporto con ciò che ci circonda e che forse dovremmo recuperare, almeno in parte per ricordarci chi siamo e da dove veniamo, magari iniziando a interagire con l’ambiente con un maggior rispetto e minore arroganza.

mercoledì 11 marzo 2020





Perché l’aria aperta ci salverà


Cammino. Il tenue bagliore della luna illumina i miei passi. Sotto di me, a valle, si dispiegano le luci dei paesi, quasi specchiando il firmamento. Nel buio che mi circonda brevi fruscii attivano i miei sensi.  Domani mattina al lavoro. “Dovrei essere a casa”, penso. Già la casa. E’lì la sicurezza e la risposta?
Un luogo in cui tornare, certo, ma nel quale non bisogna seppellirsi. Mai. Non siamo fatti per chiuderci tra mura, siamo fatti per uscire, rincorerre profili di monti lontani, salire colline e vedere cosa c’è dietro e poi di nuovo trovare un nuovo orizzonte da varcare. Lo sguardo che si perde e le corse del bambino attraverso i prati. Questo non è solamente un sogno romantico, ma una specifica costruzione della mente umana, un modello e un archetipo. Il bisogno di fuga è bisogno d’aria, di aria nuova e nuovi paesaggi. In questi tempi in cui fattori esogeni ed endogeni alla nostra società spingono a rimanere tappati in casa o in ufficio non possiamo dimenticare che siamo stati creati per altro, per camminare e scoprire. La stessa nozione di casa che abbiamo creato è contraria al nostro vero spirito. Lo ha espresso perfettamente Matteo Meschiari, nel suo scritto tanto poetico quanto provocatorio, Disabitare: “Per due milioni di anni abbiamo vissuto a contatto con il fuori, non nel buio delle grotte, ma in luoghi intermedi tra il chiuso e l’aperto: spalle alla roccia, occhi nella valle. Pochi secoli di civiltà industriale e di urbanesimo ci hanno abituati a vivere in scatole da scarpe. Tutto l’abitare va ripensato da qui, dalla costatazione che ci piaceva e ci piace vivere all’aperto, che facevamo case temporanee, leggere, che avevamo di meno e immaginavamo di più”.
La questione non è cambiare le nostre case, ma abituarci all’idea che appena possibile dovremmo vivere l’esterno, il bosco, la campagna o la montagna, perché è lì che, una volta superati i primi impacci, ci sentiamo veramente a casa. Il valore del cammino e dell’aria aperta apre le porte ad una visione che porta insegnamenti preziosi. Primo tra tutti insegna il valore dell’essenzialità. Le nostre case traboccano di oggetti inutili dai quali viviamo con terrore la separazione anche momentanea. E’ un allenamento anche saper fare a meno e sentirsi a volte più liberi. Non è una scelta francescana, ma un allenamento a saper rinunciare al superfluo che solamente vivere esperienze all’aria aperta consente, perché non possiamo portarci tutto dietro. In questo senso è importante saper lasciare ogni tanto il caldo delle nostre vite, varcare la zona di confort che ci appiatta ed uscire, uscire nel vento, sotto le stelle, riscoprire la nostra vocazione nomade e indomabilmente libera, anche fosse solo per qualche ora.
Chatwin scrisse: “La selezione naturale ci ha foggiati – dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce – per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto.
Se era così, se la “patria” era il deserto, sei nostri istinti erano forgiati nel deserto, per sopravvivere ai suoi rigori, allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considera i suoi confortevoli alloggi una prigione”. 
Ecco perché l’aria aperta ci salverà. Ci farà scoprire, ogni volta, la libertà e l’essenzialità. Ci porterà in dimensioni che non sono quelle domestiche o lavorative, con le loro dinamiche prestabilite e avvilenti, ci metterà di fronte, ogni volta a quello che siamo, alla nostra voglia di gioco e di scoperta, alla purezza del cammino come parte naturale della nostra natura. Ci saprà avvicinare a ciò che siamo stati in passato e che, nonostante tutto non è ancora completamente morto in noi. Per questo alzatevi dal divano e uscite. Lì fuori c’è la parte migliore di voi.
A darmi man forte in questo ragionamento chiamo a testimone Kipling: “Tutto considerato al mondo ci sono solo due tipi di uomini: quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno”. A te la scelta. 

domenica 1 marzo 2020








LE ANTICHE FESTE DEL FUOCO NEL LAZIO



In fondo, a ben guardare, anche nell’epoca di facebook e del tablet rimaniamo pur sempre esseri usciti da un passato ancestrale e oscuro, fatto di paura e credenze. Epoche in cui intensi bagliori illuminavano la tersa e temperata notte tra i monti. Ancora oggi questa non è una notte qualsiasi, tra le alture fuochi accesi nelle le antiche contrade allungano ombre danzanti, uno spettacolo che dall’alto farebbe un’impressione incredibile, probabilmente. Tra i canti e i balli, tra il vino e le risate, inconsapevolmente si perpetra un rito che da millenni si associa alla nostra terra.
Si tratta delle feste del fuoco, ossia di quelle particolari celebrazioni popolari che prevedono l’accensione di falò e fuochi. Ecco che il fuoco, acceso durante la notte splendente di bagliori che rimbalzavano tra le creste montuose dagli abitati vicini, aveva un potere propiziatorio, quando non miracoloso, di purificare i campi, di tenere lontane le streghe, di portare salute a gli uomini e alle  bestie. Oggi che la eco di queste magie non ci sfiora più la conservazione di tali tradizioni rimane essenziale come momento di aggregazione delle nostre comunità, come memoria storica di un passato che ci appartiene come noi apparteniamo a lui. Ma va evidenziato un livello ancora più profondo, perché questi fuochi e queste feste ci fanno tornare indietro ben prima del cristianesimo, e ben al di là dei nostri monti, una rete di fuochi che in queste notti è acceso da millenni in tutta Italia e tutta Europa, che ci stringe in una omogeneità di tradizione spaziotemporale che Frazer ha avuto modo di mettere in luce in modo evidente nel Il ramo d’oro: “ Fin dalla notte dei tempi, in certi giorni dell’anno i contadini di tutta Europa usavano accendere dei falò, per poi danzarci intorno o saltarci sopra. Fonti storiche riferiscono la presenza di queste usanze anche nel Medioevo: e la loro analogia con quelle dell’antichità è una dimostrazione intrinseca del fatto che, per rintracciarne le origini, occorre risalire a epoche di gran lunga anteriori alla diffusione del Cristianesimo. Anzi, la prova più antica della loro esistenza nell’Europa settentrionale ci viene proprio dai tentativi dei sinodi cristiani, nell’VIII secolo, di abolirle come retaggi del paganesimo”. Gli esempi che lo scrittore riporta sono innumerevoli e tutti estremamente simili tra loro per date e tipologie, tanto da escludere completamente ogni sospetto di coincidenze, dalle Ardenne alla Germania, dall’Irlanda alla Francia, Spagna e Italia comprese.
A questa tipologia di festa appartengono, soprattutto e ben vive nelle nostre zone momenti come  la notte di S. Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno o solstizio d’estate. A Segni si accendono le Calecare, ma i falò, con nomi diversi e diverse modalità vengono alimentati un po’ ovunque. Intorno al 19 marzo si accendono invece i fuochi di S. Giuseppe, in numerosissimi centri, con nomi diversi: a Itri si svolge una festa veramente importante per la comunità, i cui preparativi iniziano tempo prima della data del falò, mentre analoghe immagini possiamo trovare a  Priverno (Gonfalone dei favoni), a Sermoneta (festa dei fauni), a Roccasecca dei Volsci (Faone di San Giuseppe), ma sicuramente ogni lettore aggiungerà mentalmente un elemento alla lista. Le foto stesse qui riportate appartengono alla Festa delle Stuzze di Fiuggi, durante la quale, al grido di “Viva S. Biagio” si innalza e si arde un immenso falò. Non è difficile comprenderne e rintracciarne l’origine contadina, l’antichità, che basterebbe da sola a rendere questo tipo di manifestazioni un bene da difendere. Nelle nostre terre il tempo ha trasformato molte cose, a volte distrutto molte altre e la memoria storica di ciò che eravamo che in questi fuochi risplende, tende a sbiadirsi; in questo senso lo spettacolo dei falò è secondario rispetto alla conoscenza di ciò che essi rappresentano. Non è un caso che nell’area pontina queste tradizioni siano rimaste particolarmente vive, considerando il relativo isolamento cui le paludi hanno costretto le comunità più antiche. Ancora una volta una spiegazione univoca dei fenomeni in questione e di questa tipologia diviene sempre rischiosa, quel che è certo è che le due principali teorie, che si rifanno già ad inizio del secolo scorso, sono quella solare e quella purificatoria. Nella prima si tende a vedere un tentativo di ausilio che si dava al sole, per sostentarlo nel suo naturale corso.
 A questo ancestrale scopo si è unito quello purificatore (che successivamente si è specializzato nella protezione e purificazione contro la stregoneria). Un tempo, quando veramente gli abitanti dei monti vivevano dei pochi frutti della terra e un’annata storta poteva significare la fame, la malattia degli animali una rovina, in queste occasioni si univano la fede popolare, le credenze magiche, un momento di svago che ci si concedeva dal lavoro quotidiano. Le donne saltavano sul fuoco per avere figli, gli animali vi erano fatti passare attraverso per proteggerli da morte e malattie, gli uomini si avvicendavano intorno alle fiamme al fine di ottenere buone annate. Oggi che queste tradizioni si vanno pian piano spegnendo e sembrano veramente non avere più alcun senso agli occhi di uomini abituati all’abbondanza ed alle prese con paure decisamente diverse rispetto a quelle delle streghe, appare  veramente singolare questo strano attaccamento a perpetrare nel tempo tali  insensate tradizioni. E se la risposta fosse dovuta al fatto che queste antichissime tradizioni fanno parte di noi molto più di quanto non immaginiamo? Questo retaggio vecchio di secoli fa parte di noi stessi da così tanto tempo che magari giace sepolto sotto strati di esperienze, eppure, come la brace rimane vivo in noi. Non solo, ecco che la diffusione del Cristianesimo, insieme agli ancestrali e comuni elementi dell’umanità hanno dato un volto per alcuni versi incredibilmente comune alla penisola italiana ed in misura minore anche al continente europeo. La conoscenza, lo studio e la continuazione di questi avvenimenti del folklore popolare delle nostre terre ha la sua valenza, oltre che in se, anche perché ci consente di possedere gli strumenti per interpretare realtà molto diverse, in molti casi più simili di ciò che pensiamo.
Realtà che avvicinano le tradizioni di paesi diversi, ma che nello stesso tempo avvicinano anche tradizioni di tempi lontani e ci donano una squarcio di luce nel buio del nostro passato millenario. Ancora oggi portare avanti queste tradizioni significa gettare uno sguardo, furtivo, sfocato e deformato, ma sostanzialmente incredibilmente avvincente indietro nei secoli.

martedì 25 febbraio 2020








Lungo la via Francigena del sud: l’abbazia di Fossanova




L’antica strada dei pellegrini che conduceva dal sud Italia a Roma e viceversa, al fine di imbarcarsi per la Terrasanta, asse viario principale e molto utilizzato per tutto il medioevo ed oltre, toccava, nel suo dipanarsi una serie di località, castelli ed insediamenti religiosi, borghi e villaggi nei quali i pellegrini o i mercanti potevano ricevere assistenza, riparo e cibo.
Tra gli snodi più importanti e sicuramente tra le perle del Lazio che vale la pena ancora oggi visitare, tanto il tempo sembra essere stato clemente con questo complesso, spicca l’abbazia di Fossanova, ai piedi dei Monti Lepini. L’antico borgo sorto intorno all’abbazia di Fossanova è probabilmente uno dei luoghi più suggestivi del panorama laziale. L’abbazia è considerata, insieme a Casamari, uno degli esempi più significativi dell’architettura gotico-cistercense in Italia. Nata da un convento benedettino, divenne cistercense nel 1135, allorché i monaci iniziarono la costruzione della chiesa. Intorno nacque un complesso che sopravvive tutt’oggi nella sua integrità, ricco di edifici antichi e perfettamente conservati, che restituiscono, nel complesso il colpo d’occhio che si offriva al pellegrino in pieno duecento.
Il complesso gravita attorno a quello che era il fulcro della vita monastica, il chiostro, famoso per la sua armonia e luogo spirituale della meditazione dei monaci, intorno al quale sono disposte le strutture principali. Tutto il lato occidentale è occupato dalla stupenda chiesa, orientata verso sud, da poco restaurata ed oggi restituita all’antico, sobrio splendore tipico dell’architettura cistercense, con pianta basilicale a croce latina con tre navate e coro rettangolare; a nord si aprono la sagrestia e la Sala capitolare, nella quale è inciso un grande nodo di Salomone, simbolo che gli esperti di mistero e di esoterismo attribuiscono ad una forte presenza templare nell’abbazia, ipotesi da verificare, per quanto affascinante, essendo il luogo sicuramente suggestivo, dal momento che questo ambiente veniva comunemente chiamato anche Sala dell’ascolto dello Spirito; era in questo luogo, infatti che ogni mattina i  monaci ascoltavano le Sacre Scritture e altri testi di teologia, oltre a dibattere le più importanti questioni amministrative ed economiche della comunità. Il lato orientale è composto dal refettorio, dalla cucina e dalla dispensa, mentre sul lato meridionale si aprono delle sale di rappresentanza e, forse, la casa dell’abate. I piani superiori sono occupati dai dormitori dei monaci, mentre più lontani trovano posto l’ala dei conversi, l’infermeria e la foresteria.
La foresteria, in particolare riveste, nell’ottica del pellegrino e del viandante un’importanza fondamentale. Essa era infatti disposta vicino all’antico ingresso principale dell’abbazia e rispondeva alla precisa esigenza di accogliere tutti coloro che avevano necessità di un riparo sicuro, di ristoro e spesso anche di cure, dopo aver intrapreso il lungo viaggio da o verso Roma. L’ospitalità era un preciso dovere della congregazione, espressamente indicato nella Regola di S. Benedetto e ben si inseriva in quella rete di punti fissi di sosta nei quali i pellegrini avevano possibilità di fermarsi, ben distribuiti lungo tutta la via francigena. La foresteria era, infatti, composta da due edifici perpendicolari tra di loro; nel primo (una vasta camerata) alloggiavano i pellegrini, mentre l’altro fabbricato era composto da due piani, nei quali trovavano posto, rispettivamente la cappella per i pellegrini e quella per i religiosi di passaggio. Non molto distante da questa struttura vi era anche l’infermeria dei pellegrini, oggi andata quasi del tutto persa, mentre rimangono completamente intatte le altre strutture ricettive, che rendono perfettamente l’idea dell’accoglienza e della capillare organizzazione ricettiva che la presenza delle abbazie e dei monasteri garantiva lungo il percorso della via francigena.
L’abbazia è stata segnalata dalla Regione Lazio come uno dei poli attrattivi turistici della Regione, essa è indissolubilmente legata al nostro territorio, sia per ragioni storiche, sia per vicinanza. E’ un importante centro propulsore per lo sviluppo del turismo sostenibile che la rete dei Cammini e delle antiche strade (Francigena, Cammino di Francesco, Via Benedicti) che può interessare vaste aree e territori che fino ad oggi sono rimasti marginali nell’ambito turistico e culturale. La strada è quella di legare le realtà già consolidate in una trama e in una storia con le aree storicamente e culturalmente ad esse legate, attraverso il turismo ecologico e culturale, per mezzo di un filo che unisca tutti i tasselli di questa grande rete e che affonda le proprie radici nella storia d’Europa: gli antichi cammini e le loro storie.

martedì 18 febbraio 2020











La Via Sacra, la storia e il mito


Il Monte Cavo domina tutti i rilievi dei castelli, forte dei suoi 949 m. Da sempre questo luogo ha un’importanza essenziale nell’area per la sua visibilità da grandi distanze e per la sua centralità nell’ambito della zona di riferimento. Proprio queste caratteristiche ne hanno fatto uno di quei luoghi oggetto di meraviglia e venerazione sin dalla più antica età dell’uomo.
All’epoca in cui Roma non era ancora saldamente padrona del Lazio ed in cui la formidabile Alba Longa le contendeva il primato assoluto di metropoli, anzi, in quanto città principale della lega latina, proprio Alba primeggiava in queste vallate selvagge e boschive, il Mons Albanus, come veniva chiamato, era sede non soltanto del culto più importante di tutta la regione, quello di Giove Laziare, ma, proprio per questo motivo, anche luogo di incontro e di rito per tutti i popoli dell’area. Proprio su questa sommità, infatti, si svolgeva il rito di ancestrale di conferma dell’alleanza tra tutti i popoli latini federati che aveva il nome di Feriae Latinae, durante il quale veniva sacrificato un esemplare di toro bianco i cui pezzi venivano suddivisi tra i rappresentanti di tutti i popoli confederati. Un rito, quindi, antichissimo e che aveva una valenza tanto religiosa quanto politica. A seguito dell’imporsi della potenza di Roma, Monte Cavo ed il suo santuario entrarono a far parte dell’orbita di influenza romana ed il centro politico e di culto della resistenza latina passò al santuario di Diana Nemorense. La sommità del monte accoglieva, probabilmente un abitato chiamato Cabe o Cabum, che, insieme al santuario ed al Monte erano considerati sacri e neutrali.
Del tempio non è rimasto assolutamente nulla, durante gli scavi eseguiti nel 1929 è stato portato alla luce solamente qualche blocco squadrato e poco altro; possibile che di un centro di culto così vitale non si sia conservata traccia? Probabilmente la risposta sta nel fatto che non vi era nulla da conservare; Frazer a inizio secolo aveva già ipotizzato che il tempio fosse da intendersi come un bosco di querce. Più recentemente anche Carandini afferma che “non sapremmo immaginarci il suo santuario di Giove se non come un nemus sulla cima del monte nel quale sorgeva una grande quercia sacra, analogamente a quella del Campidoglio, preceduta magari da una radura o lucus”. Un luogo simbolico, quindi che ben rappresenta la natura selvaggia di questi luoghi in un tempo in cui la mano dell’uomo, gli sparsi borghi, i templi extraurbani, le strade erano isole o piccoli arcipelaghi isolati da un mare di verde cupo ed intenso.
Per giungere su questo luogo mistico e carico di significato bisognava percorrere la Via Sacra, che dall’antica via Appia, presso Ariccia, si staccava, costeggiando il lago di Nemi e saliva serpeggiando nel bosco finno alla cima del monte. La strada, ancora perfettamente conservata è ancora oggi sostanzialmente interamente percorribile a piedi. Si tratta di una larga via selciata larga per tutta la lunghezza 2,55 M e costeggiata da crepidines in peperino. Il tracciato oggi rimasto, seppur molto più antico può essere ricondotto sicuramente all’epoca del dominio di Roma, durante il quale il santuario ed il percorso rituale per giungervi, pur avendo perso quella valenza politica, rimase ancora molto a lungo un  centro religioso di grandissima importanza, forte di una spiritualità che non aveva subito declino. Ancora oggi l’impatto emotivo che si vive percorrendo l’antica via è notevole. La salita verso il monte si svolge in un ambiente incontaminato che fa da contraltare al basolato romano. Tutto intorno, il bosco fitto di querce, aceri, tigli, castagni, pungitopi, biancospini,  avvolge il tracciato della strada, mentre avanza tra squarci di panorama sui laghi, incastonati nella verde valle laziale, che nulla ha perso, vista da qui su, della sua primitiva e selvaggia bellezza.
Un viaggio che in realtà parte dal periodo romano, che fu l’ultimo periodo di sistemazione del percorso, ma che si perde molto più in dietro, veramente verso l’alba dei tempi, poiché Monte Cavo, entra in gioco nella più remota mitologia dei popoli laziali, messo in relazione con Fauno, mitico re e demone che si aggirava per le vallate dei castelli prima ancora che gli dei romani come noi li conosciamo facessero la loro comparsa. Fauno era considerato un “lupo sgozzatore”, ma anche protettore della coltivazione degli alberi e dell’accensione del fuoco. Oltre a questi compiti, Carandini, infatti, intravede da quel profondo passato un nesso essenziale tra questo demone ed il monte; secondo l’archeologo, infatti, Fauno potrebbe essere stato il fondatore del culto di Giove Albano (precursore di quello di Giove Laziare) sul monte omonimo, ossia l’attuale Monte Cavo. Il nostro demone, era una presenza fissa nei boschi e nei luoghi selvaggi della prima cultura laziale, e ce lo immaginiamo senza dubbio aleggiare  nella selva che ricopre le pendici ed avvolge la via sacra. Ecco che quelle lastre di pietra riportano in vita il tempo mitico e ancestrale della storia del Lazio, quando realtà e leggenda erano inscindibilmente legati. Percorrere la strada, a piedi, fra i boschi sacri nella stessa direzione, sullo stesso identico percorso calcato all’alba della storia diviene una esperienza metatemporale e mitica.
Lentamente, ad ampi risvolti ed ancheggiando lungo i fianchi del sacro monte, la via ci conduce verso la cima del monte, la meta del pellegrinaggio, il luogo nel quale, in un tempo a noi lontano, sorgeva il bosco sacro a Giove; mai come in questo caso, però, il senso del viaggio è il viaggio stesso più che il fine, visto che ad un’esperienza intensa come quella dell’immersione totale nella storia e nella natura che il percorso antico regala, segue, all’arrivo, una delusione pari per intensità, se non si è preparati a vedere la selva di tralicci ed immense antenne che svettano sulla cima di Monte Cavo, peraltro visibili da grandissima distanza. Un vero peccato che la suggestione di questi luoghi si perda nella brutta vista di questi giganti metallici, ma d’altronde l’uomo ha oggi altre esigenze, che è necessario imparare a conciliare, senza derive talebane in un senso o nell’altro. In questo discorso, le antenne, che sono in gran parte strutture militari e che sembrano sinceramente abbandonate a loro stesse, regalando al camminatore che arriva l’idea di uno scenario apocalittico post atomico e l’ingloriosa fine del tracciato dell’antichissima strada all’interno di una specie di galleria sono, da un certo punto di vista e paradossalmente, meno deprimenti dell’accorato appello che le amministrazioni sono state evidentemente costrette a  scrivere sui secchi della spazzatura al fine di sponsorizzarne l’utilizzo in un luogo dalla bellezza mozzafiato, con la spiegazione, che dovrebbe essere quanto meno scontata (ed evidentemente non lo è), di quanto un luogo come quello meriti la cura e l’attenzione da parte di tutti. Che le ragioni del progresso siano a volte poco sensibili ai temi a noi cari quali ecologia e conservazione di aree storicamente e simbolicamente importanti è un dato di fatto (e questo è stato soprattutto vero in passato), ma altrettanto vero è che prima di tutto è nostra la responsabilità di mantenere viva la nostra storia e sostenibile il godimento degli angoli incontaminati e carichi di significato, che sia per una passeggiata  per un’uscita in mountain bike, o semplicemente per osservare il panorama dalla vetta.

martedì 11 febbraio 2020









I Collemezzo e il loro castello


Di quello che un tempo fu un caposaldo di controllo e di potere lungo la via obbligata tra la valle di Montelanico, i pascoli di altura del Campo e la Pianura Pontina, oggi rimangono vestigia avvinte dalla rigogliosa vegetazione sull’omonimo colle, raggiungibile attraverso un sentiero nel fitto del bosco. Lasciata via di Collemezzo al primo tornante ci si addentra nel bosco verso sud aggirando le pendici del colle, fino a quando il sentiero placido risale fino alla cresta, qui proseguendo verso nord, tra macchie di rovo e rosa canina, ci si imbatte in un banco roccioso; è solo allora, alzando gli occhi, che ci si rende conto di trovarsi ai piedi dell’antica torre del castello che ancora svetta, seminascosta tra i cespugli, provata ma non vinta dal tempo. Si risale il banco, con lo sguardo ancora in su, dove il cambio di prospettiva scopre un merlo superstite del torrione e si scorgono i resti di un muretto divisorio, poi quasi si cade in un foro rettangolare nel terreno, a poca distanza, l’antica cisterna dell’acqua. Sulla sommità del colle non c’è altro, se non arbusti di ginepro e rovo, ma i fianchi della collina restituiscono, in uno scenario spettacolare, immerse in squarci di verde cupo e brillante spaccati anche imponenti di mura difensive che disegnano e inseguono il profilo fianco roccioso. Invase e sommerse, a volte sorrette da radici e arbusti le mura ricordano tutta la gloria passata, oggi di nuovo dominio del bosco. Aceri e faggi inglobano le millenarie strutture, rendono selvagge le antiche superfici di blocchetti ben squadrati, conquistano le fessure dello scolo dell’acqua.
Per circa due secoli il castello rappresentò lo strumento con il quale la famiglia dei Collemezzo, amministrava e controllava un territorio che comprendeva sicuramente l’attuale Campo di Montelanico, fino agli attuali confini col territorio di Carpineto Romano, attraverso i quali passavano mandrie di armenti nella via della transumanza, ma anche merci e uomini dal versante pontino dei monti Lepini, attraverso il passaggio verso Ospedaletto. Non a caso la strada più antica che conduce da Montelanico al Campo, e che si snoda ancora, semidimenticata, a sud dell’attuale tracciato ha inizio proprio alle pendici di Collemezzo, segno evidente dell’importanza e del controllo che una volta tale maniero esercitava.
Nulla si conosce rispetto alla fondazione del castello, ipotizzabile intorno al XII secolo d.c. La prima notizia certa che è stata possibile reperire, risale al 1182, precisamente ad una bolla di Papa Lucio III. In tale documento il Pontefice conferma una serie di privilegi al vescovo di Segni Pietro su chiese e relative pertinenze sparse in gran parte della valle del Sacco. Tra questi si cita anche la chiesa di S. Maria nel Castello di Collemezzo. Il Papa successivo, Clemente III, con bolla del 1188, confermerà di nuovo al vescovo Pietro gli antichi privilegi, con specifica menzione, tra gli altri di Collemezzo.
Bisognerà aspettare ancora un po’, affinché la storia prenda contorni più nitidi, precisamente nel 1199, anno in cui compare nei documenti un Siginolfo di Collemezzo tra i testimoni della donazione fatta da Giovanni dei Conti di Ceccano ai monaci di Villamagna di un oratorio a Carpineto.Si giunge così al  1207, quando  nel resoconto fatto da Joannes de Sancto Laurentio a Papa Innocenzo III, circa l’atto di omagio portato allo stesso Pontefice da un tale Conte Ildebrando a Montefiascone, si enumerano una serie di nobili presenti alla cerimonia, fra i quali un dominus Guido de Colle de Mendi, Guido di Collemezzo.
Due anni più tardi, nel 1209, ancora Joannes de Sancto Laurentio riferisce al Pontefice di un nuovo atto di fedeltà e omaggio da parte del Conte Riccardo di Sora, anche stavolta tra i testimoni viene citato Guido di Collemezzo, insieme  ad un dominus Lando de Colle de Medio. Proprio in questo frangente un tale Landolfo di Collemezzo viene nominato dal 1207 al 1209 da Innocenzo III Rettore della Provincia di Campagna e Marittima, una specie di governatore del lazio del sud. Altre apparizioni in quegli anni citano, tra gli altri,  un Landone di Collemezzo che è presente all’atto con il quale Pietro, nipote di Bonifacio VIII ottiene, grazie proprio allo zio, in enfiteusi tutti i beni e privilegi che la chiesa anagnina aveva a Trevi, Filettino e Vallepietra.
Proprio la figura del Papa anagnino risulterà fatale al castello, poiché esso rientrerà in pieno nella sua politica di concentramento dei possessi e beni del Lazio nelle mani della propria famiglia.Già nel 1300 il “nobile” Giacomo di Collemezzo vende al citato Pietro l’ottava parte (che gli spettava) di Collemezzo per la somma di 2000 fiorini d’oro, mentre nel 1303 sempre Pietro viene riconfermato nel possesso, tra gli altri del castello di Collemezzo, che quindi a quell’epoca è passato, almeno in parte nella disponibilità della famiglia Caetani. A partire dal 1300 risulta feudatario del castello Guido di Collemezzo, che, proprio in virtù della posizione di dipendenza cui versava il feudo partecipa, nel 1303 all’oltraggio di Anagni nei confronti di Bonifacio VIII. Nel 1308 egli risulta anche padrone del castello di Montelanico, che però nel 1313 viene distrutto da una reazione dei Caetani, azione cui seguirà un’energica protesta di Guido nei confronti del Rettore.

Il castello, dopo questi avvenimenti ebbe vita breve, non molto più tardi del 1327, infatti, “…. insorsero anche delle forti dissensioni fra il popolo di Cori, e gli abitanti di Colle mezzo, castello poco distante da quella città […]. Offesi i corani dalla viziosa condotta de’ predetti abitanti, non invocarono il soccorso della suprema autorità, per essere vendicati dalle offese, ma, usciti in grossi drappelli armati dalle mura della loro patria, marciarono militarmente a danno di quel castello, che presero e distrussero”. Così narra Sante Viola, nella sua Memorie Istoriche dell’Antichissima Città di Cori ne’ Volsci, la fine del castello di Collemezzo ed io non posso fare a meno di immaginare queste schiere di corani che discendono l’antica via quasi dimenticata dal Campo di Montelanico verso Collemezzo, lì dove oggi, tra la pace di quei luoghi ed il silenzio di una via quasi scomparsa che conduce ad un castello diruto, si incontra a mala pena qualche cercatore di funghi o qualche sparuto appassionato di trial… per fortuna.

mercoledì 5 febbraio 2020









Solitudini e silenzi, aggregazione e lavoro sui Monti Lepini

C’è stato un tempo, un lunghissimo tempo, in cui i nostri monti erano luoghi selvaggi e solitari, i nostri paesi, piccoli e raccolti in loro stessi, erano isole in uno sterminato oceano di verde. Boschi e pietre, isolati insediamenti di pastori e un’ intrigata rete di sentieri che univano questa sparsa umanità come sottili fili nella selva.
Spesso quando si è soli tra i nostri monti, si avverte più forte quel senso di appartenenza alla nostra gente. Spesso, immerso in quei silenzi, ho sentito un legame con una vita che non è più mia, con la vita del carbone, delle bestie, della neve, della fatica e guardando dalla cima del Semprevisa o del Capreo, giù nella vallata, sonnecchiare Carpineto nella mente ho rivissuto la meraviglia e la gioia del viandante che dopo giorni di cammino tra i sentieri, finalmente intravedeva il paese. “Finalmente oggi saremo a Carpineto”, finalmente una locanda, del cibo, un caminetto con il fuoco che danza e riscalda. Il commercio nelle nostre comunità è sempre stato un fattore aggregante e di movimento, ha fatto conoscere ed incontrare le nostre comunità, dopo una o più giornate di cammino attraverso i boschi, lungo strade strappate alla montagna; un tempo il mercato, le fiere, le feste patronali erano l’epicentro di questo movimento. Dopo i silenzi di giorni trascorsi nelle capanne lepine, i pastori tornavano a vendere, comprare, ascoltare ciò che chi veniva da più lontano aveva da raccontare; un’umanità eterogenea che dava impulso alla vita di questa terra. Si saliva dal mare, dalla pianura pontina, col pesce e con la sapienza di chi aveva visto di più. Già la sapienza, quella dei nostri nonni, tutto pratica e pure tutta poesia. Il viandante andava e tornava, narrava e ascoltava, comprava e vendeva nelle nostre piazze, poi attraversava di nuovo i silenzi e portava la sua ricchezza nel paese vicino.
Oggi quale spazio ha ancora la cultura millenaria (eh si, di millenni stiamo parlando) di queste genti? Che posto hanno i silenzi che danno valore alle parole? Che posto ha la fatica che da valore al denaro? Forse nessuno. Allora perché quel brivido vicino Colle La Costa, quando a mala pena inizia ad intravedersi Carpineto, perché quel salto al cuore, quella gioia come se fosse la meta attesa da giorni? Tante domande. Da secoli le genti lepine si incontrano, a volte si scontrano, ma sempre e comunque rafforzano in questo modo la propria auto-rappresentazione. L’immagine di sé e della propria storia, di tutta quella serie complessa di dinamiche anche di sviluppo territoriale avviene attraverso il confronto e all’incontro, anche ludico delle diverse componenti sociali, proprio come al tempo della fiera e del viandante. Non è una immagine solamente evocativa, si parla di percezione della comunità locale da proiettare al di fuori, anche in termini turistici, ma prima di ogni altra cosa da avvertire come propria.
L’identità è immagine e l’immagine si vende, ma deve prima di tutto essere sostanza, essere comunità, essere ancora e nonostante tutto nostro nonno e le sue bestie, perché in fin dei conti le nostre feste, le nostre comunità sono state realizzate da lui, dai suoi silenzi e dalla sua gioia alla vista del paese. La forza è proprio in questo sentirsi comunità, in questi sottilissimi fili che hanno legato i paesi, le chiese, i mercati. La comunità diventa senso di appartenenza e motivo di aggregazione, motivo di sviluppo personale, ma soprattutto fattore di crescita economica, nell’organizzazione di iniziative comuni e condivise nel segno dell’immagine di sé e dell’autorappresentazione.

martedì 28 gennaio 2020







Nella Foresta Pluviale - [Australia]

L’unico modo di attraversare il Deintree River, punto di accesso alla regione, è un traghetto per automobili. Qui giungiamo di sera tardi a bordo dell’autovettura noleggiata il giorno prima; piove e siamo stanchissimi per gli spostamenti aerei e l’avventura passata su Lady Musgrave. Attraverso la fitta umidità dell’aria intravedo delle luci posteriori poco avanti, ci accodiamo. Nell’oscurità totale avvertiamo un rumore poco distante, una cerata arancione staziona fuori dal finestrino. A vestire la sgargiante divisa è, come in ogni film dell’orrore che si rispetti, un tipo strano, alto, allampanato, magro con i tratti scavati, capelli biondo paglia. Biascica qualcosa, poi allunga un foglio nell’abitacolo. E’ l’uomo del traghetto e viene a chiedere il pedaggio. Chissà perché penso istintivamente a Caronte. Capisce che siamo stranieri, ci chiede di attendere e poco dopo torna con un foglietto in mano: è una mappa del Deintree National Park; su due piedi trovo strana quella premura. Sarà la nostra salvezza. In tutta l’area tra il Deintree River e Capo York non c’è corrente elettrica, non ci sono fognature, non c’è campo per i cellulari, ma solo una distesa prepotente di foresta pluviale primaria, probabilmente la più antica d’Australia, interrotta qui e là da qualche villaggio e pochi insediamenti. Senza quella mappa, di notte con la pioggia non avremmo mai trovato il capanno ai margini della foresta che ci ha ospitato.
Siamo qui per immergerci in questa foresta primordiale, enorme e viva. Con pulsante meraviglia ci avviciniamo alla pulsante essenza di questo immenso essere vivente. Il sentiero Jindalba si biforca quasi subito; da una parte una comoda passeggiata su una passerella di legno, dall’altra andiamo noi, per un sentiero appena tracciato che si immerge per un’ora e mezzo di cammino nel cuore della vegetazione. Avanziamo estasiati sotto una volta  ad arcate altissima di verde smeraldo, di una lucentezza così vivida da sembrare innaturale, sotto di noi si stende un pavimento di radici intrecciate. L’ormai consueto concerto di uccelli tropicali ci segue durante il tragitto. Incontriamo un gran numero di tacchini selvatici dal corpo nero e capo rosso, incuranti del nostro passaggio e per nulla spaventati dalla nostra presenza. Mentre commentiamo il tripudio di vita che ci gira intorno, una sagoma nera attraversa a tutta velocità il sentiero a due metri da noi, troppo rapido per poterlo mettere a fuoco. Ne cogliamo solamente le scure setole con la coda dell’occhio ed un sommesso grugnito: un maiale selvatico. Le piante assumono forme di enormi ombrelli. Oltrepassiamo numerosi torrenti in secca che la stagione delle piogge si è lasciata alle spalle, come segni del recente passaggio. Giganteschi tronchi salgono al cielo. Cattedrale di mangrovie infinite rendono omaggio a questa natura primitiva e selvaggia, dove ogni cosa, per dimensioni e forme appare nuova ai nostri occhi europei. Intorno al sentiero le radici di questi alberi superbi, a volte più alte di noi, creano figure quasi sinistre di tentacoli giganti, ci sentiamo piccoli.
Le mangrovie sono una vista quasi onnipresente, ricoprono le rive del Cooper Creek, fiume dalle acque limacciose che navighiamo qualche tempo dopo. Uccelli si involano a pelo d’acqua, partendo dai rami più bassi. E’ pomeriggio. Improvvisamente la barca rimane immobile proprio nel mezzo del fiume. Un silenzio irreale cala tra le mangrovie; solamente un fischio penetrante echeggia con brevi pause e un tono ascendente da chissà dove. L’umidità flagella i nostri corpi sudati. Di nuovo il fischio, nel silenzio assoluto rende l’atmosfera carica di tensione, in una scena degna di Apocalypse Now. D’un tratto un sommesso sciabordio a una decina di metri dall’imbarcazione cattura la nostra attenzione, ci voltiamo appena in tempo per vedere un mostruoso coccodrillo scattare aprendo e serrando le fauci su un uccello di fiume. Poi più nulla e di nuovo silenzio. Senza scampo la vittima sarà stata trascinata in un luogo appartato per essere finita.
Questa è la foresta, meravigliosa e senza pietà, la lotta per la sopravvivenza spietata, eppure il suo fascino è ipnotico e chiunque vi sia stato desidera tornarci. Un luogo che per noi, abituati alla civiltà antropizzata da cui veniamo sembra smisuratamente pieno di pericoli, estraneo e indecifrabile e che comunque risveglia istintivamente un’attrazione che ha il sapore di casa. Una casa che abbiamo perduto per sempre.

martedì 21 gennaio 2020






L’ABBAZIA DI VALVISCIOLO storia e mito nel Lazio medievale

La storia di questo luogo di culto è antichissima e leggendaria; probabilmente fu costruito intorno al X secolo dai monaci greci brasiliani. Nel 1165 Federico Barbarossa, allora in guerra con  Papa Alessandro III fece distruggere numerose città del Lazio e costruzioni religiose; ne fecero le spese Ninfa e l’annessa abbazia di Marmosolio, dedicata a Santo Stefano, così che i monaci bianchi, secondo la tradizione furono costretti a trasferirsi, tra il 1166 e il 1168, nella vicina abbazia di San Pietro, che divenne l’abbazia dei Santi Pietro e Stefano di Marmosolio. Fu poi nel 1312 che questa assunse il nome di Valvisciolo allorché vi si trasferirono i monaci provenienti da un’altra abbazia appena distrutta, quella di Valvisciolo nei pressi di Carpineto Romano.  Nel 1411 Santo Stefano cadde in commenda e vi restò fino al XIX secolo. Nel 1523 l’abbazia fu declassata a priorato da Papa Clemente VII e nel 1529 ridotta a priorato secolare, quindi i monaci bianchi dovevano essere già andati via. Tra il 1600 e il 1605 fu occupata dai Foglianti (cistercensi riformati) che la tennero quasi ininterrottamente fino alla soppressione degli ordini religiosi attuata da Napoleone all’inizio dell’800. Nel 1846 Papa Pio IX richiamò i cistercensi nella sede, nel 1870 il monastero fu di nuovo soppresso, ma i monaci non lo abbandonarono e nel 1888 esso fu ricomprato dall’Ordine.
Nonostante la storia travagliata e la vicinanza con la ben più famosa abbazia di Fossanova, l’abbazia di Valvisciolo si presenta come un piccolo capolavoro dell’arte cistercense del Lazio. Le dimensioni ridotte ne permettono una visione di insieme che ne mette in evidenza contemporaneamente l’aspetto generale semplice e austero tipico dell’architettura cistercense e i preziosi particolari. La chiesa ha facciata tripartita, con la parte centrale, corrispondente alla navata centrale, più alta degli altri corpi. La lunetta semicircolare sopra il portone presenta un affresco raffigurante la Madonna con il Bambino tra San Benedetto e un altro Santo. Al di sopra della lunetta spicca lo stupendo rosone di circa cinque metri di diametro, formato da dodici colonnine che si irradiano a partire da un foro cruciforme centrale. L’interno della chiesa non è imponente, le tre navate sono scandite da cinque campate coperte da volte a crociera. Gli altri locali dell’abbazia si trovano accorpati al lato a destra della chiesa e sono accessibili attraverso un antichissimo portale ad arco a tutto sesto. Lascia un senso di pace nella sua armonica quiete il chiostro. Di pianta quadrata con corridoi perimetrali coperti da volte a crociera e aperti sul lato interno per mezzo di colonnine binate in travertino; particolare su cui vale la pena soffermarsi durante la visita è la varietà di capitelli di tali colonnine. Dal lato orientale del chiostro si accede alla sala capitolare, ossia la sala comune così chiamata perchè ogni giorno vi si riunivano tutti i monaci per ascoltare un capitolo della regola di San Benedetto, formata da due navate e con due pilastri cilindrici al centro. Altra particolarità di questa costruzione è che in contraddizione con i canoni edificativi cistercensi (e quindi anche con Fossanova) il refettorio non è perpendicolare, ma parallelo al chiostro.
L’abbazia si presenta come un luogo mitico, in cui si incrociano e si mescolano fatti storici, antiche leggende e lontane presenze. Il relativo isolamento di questa abbazia, alle pendici dei Monti Lepini, sul margine delle Paludi Pontine, da sempre zona – limite del mistero dall’epoca romana e per tutto il medioevo, hanno reso il luogo ideale per l’attecchire di leggende e miti, qualche volta in  parte suffragati dalle evidenze artistiche e archeologiche.
La maggior parte di questo repertorio è legato alla presenza dei templari, con almeno due affascinanti leggende che vale la pena di ricordare. La prima ha a che fare con una credenza diffusa a partire dal XIV secolo secondo la quale la crepa sull’architrave dell’ingresso della chiesa sarebbe apparsa il 18 marzo 1314, data in cui venne messo al rogo l’ultimo gran maestro dei templari Jaques de Molay. Sempre legata allo scioglimento del famoso ordine di monaci-guerrieri è un’altra storia, ricordata da più fonti tra XIV e XV secolo la quale  narra che i monaci scampati agli arresti e alle esecuzioni in Francia ad opera di Filippo il Bello, sarebbero giunti nel Lazio e avrebbero nascosto il tesoro dell’ordine in alcuni centri monastici a loro fedeli, tra cui  Valvisciolo; vuole quindi la leggenda che parte di questo tesoro sia ancora nascosto nei sotterranei dell’abbazia. Questi miti, di antichissima origine, sebbene non abbiano alcuna prova storica, testimoniano l’importanza che ebbe il centro in quell’epoca. Al di là di miracoli e tesori la presenza dell’ordine del tempio è stata ipotizzata da molti studiosi sulla base di simboli che all’interno della struttura campeggiano un po’ ovunque sotto forma di incisioni e graffiti, ci si riferisce in particolare al nodo di Salomone, segno grafico che storicamente può essere ricondotto alla mistica templare e che si trova inciso in diversi punti. A questo proposito un muro del chiostro si presenta come una vera miniera di incisioni di antichissima origine, probabilmente opera di monaci medievali. Tali graffiti, molti dei quali incomprensibili, sono testimoni di un’epoca in cui religione, mistica, magia e esoterismo erano in larga parte fattori comuni della formazione degli uomini, compresi quelli di chiesa; famoso in questo senso il quadrato magico inciso sulla parete e oggi protetto da una lastra trasparente, che trova le sue origini nella magia di Roma antica (un esemplare è stato trovato inciso su una colonna a Pompei). Tale incisione, col le parole di rito SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, deve la sua fama al fatto di essere l’unico esemplare di tale frase magica raffigurata non come un quadrato ma come un cerchio concentrico diviso in settori.
Questa ed altre iscrizioni, di natura mistica e magica furono spesso usate come formule magiche dalle confraternite religiose a carattere iniziatico, di cui i templari furono sicuramente la più famosa, ma non l’unica. Il medioevo fu un tempo in cui la ricerca della fede spesso camminò di pari passo con la magia ed il misticismo e l’appartenenza ad ordini religiosi veniva spesso a coincidere con il venire in possesso di riti e conoscenze che molto ancora dovevano ad un paganesimo temporalmente troppo vicino, a culti della terra e della natura che solo col tempo furono inglobati e integrati con successo nel cristianesimo, ma che inizialmente avevano ancora una forza prorompente. Così essere monaci (guerrieri o meno) significava far parte di una confraternita che affiancava, naturalmente, l’insegnamento del Vangelo e retaggi esoterici e mistici che venivano in gran segreto diffusi tra gli adepti.
La magia di questo luogo rimane tuttora intatta nella splendida atmosfera che si respira passeggiando nel chiostro fiorito a primavera, tra le possenti arcate, la pietra chiara ed il salutare silenzio, al di fuori dei circuiti turistici di massa, nel cuore stesso del medioevo ricco di echi e suggestioni.