martedì 18 febbraio 2020











La Via Sacra, la storia e il mito


Il Monte Cavo domina tutti i rilievi dei castelli, forte dei suoi 949 m. Da sempre questo luogo ha un’importanza essenziale nell’area per la sua visibilità da grandi distanze e per la sua centralità nell’ambito della zona di riferimento. Proprio queste caratteristiche ne hanno fatto uno di quei luoghi oggetto di meraviglia e venerazione sin dalla più antica età dell’uomo.
All’epoca in cui Roma non era ancora saldamente padrona del Lazio ed in cui la formidabile Alba Longa le contendeva il primato assoluto di metropoli, anzi, in quanto città principale della lega latina, proprio Alba primeggiava in queste vallate selvagge e boschive, il Mons Albanus, come veniva chiamato, era sede non soltanto del culto più importante di tutta la regione, quello di Giove Laziare, ma, proprio per questo motivo, anche luogo di incontro e di rito per tutti i popoli dell’area. Proprio su questa sommità, infatti, si svolgeva il rito di ancestrale di conferma dell’alleanza tra tutti i popoli latini federati che aveva il nome di Feriae Latinae, durante il quale veniva sacrificato un esemplare di toro bianco i cui pezzi venivano suddivisi tra i rappresentanti di tutti i popoli confederati. Un rito, quindi, antichissimo e che aveva una valenza tanto religiosa quanto politica. A seguito dell’imporsi della potenza di Roma, Monte Cavo ed il suo santuario entrarono a far parte dell’orbita di influenza romana ed il centro politico e di culto della resistenza latina passò al santuario di Diana Nemorense. La sommità del monte accoglieva, probabilmente un abitato chiamato Cabe o Cabum, che, insieme al santuario ed al Monte erano considerati sacri e neutrali.
Del tempio non è rimasto assolutamente nulla, durante gli scavi eseguiti nel 1929 è stato portato alla luce solamente qualche blocco squadrato e poco altro; possibile che di un centro di culto così vitale non si sia conservata traccia? Probabilmente la risposta sta nel fatto che non vi era nulla da conservare; Frazer a inizio secolo aveva già ipotizzato che il tempio fosse da intendersi come un bosco di querce. Più recentemente anche Carandini afferma che “non sapremmo immaginarci il suo santuario di Giove se non come un nemus sulla cima del monte nel quale sorgeva una grande quercia sacra, analogamente a quella del Campidoglio, preceduta magari da una radura o lucus”. Un luogo simbolico, quindi che ben rappresenta la natura selvaggia di questi luoghi in un tempo in cui la mano dell’uomo, gli sparsi borghi, i templi extraurbani, le strade erano isole o piccoli arcipelaghi isolati da un mare di verde cupo ed intenso.
Per giungere su questo luogo mistico e carico di significato bisognava percorrere la Via Sacra, che dall’antica via Appia, presso Ariccia, si staccava, costeggiando il lago di Nemi e saliva serpeggiando nel bosco finno alla cima del monte. La strada, ancora perfettamente conservata è ancora oggi sostanzialmente interamente percorribile a piedi. Si tratta di una larga via selciata larga per tutta la lunghezza 2,55 M e costeggiata da crepidines in peperino. Il tracciato oggi rimasto, seppur molto più antico può essere ricondotto sicuramente all’epoca del dominio di Roma, durante il quale il santuario ed il percorso rituale per giungervi, pur avendo perso quella valenza politica, rimase ancora molto a lungo un  centro religioso di grandissima importanza, forte di una spiritualità che non aveva subito declino. Ancora oggi l’impatto emotivo che si vive percorrendo l’antica via è notevole. La salita verso il monte si svolge in un ambiente incontaminato che fa da contraltare al basolato romano. Tutto intorno, il bosco fitto di querce, aceri, tigli, castagni, pungitopi, biancospini,  avvolge il tracciato della strada, mentre avanza tra squarci di panorama sui laghi, incastonati nella verde valle laziale, che nulla ha perso, vista da qui su, della sua primitiva e selvaggia bellezza.
Un viaggio che in realtà parte dal periodo romano, che fu l’ultimo periodo di sistemazione del percorso, ma che si perde molto più in dietro, veramente verso l’alba dei tempi, poiché Monte Cavo, entra in gioco nella più remota mitologia dei popoli laziali, messo in relazione con Fauno, mitico re e demone che si aggirava per le vallate dei castelli prima ancora che gli dei romani come noi li conosciamo facessero la loro comparsa. Fauno era considerato un “lupo sgozzatore”, ma anche protettore della coltivazione degli alberi e dell’accensione del fuoco. Oltre a questi compiti, Carandini, infatti, intravede da quel profondo passato un nesso essenziale tra questo demone ed il monte; secondo l’archeologo, infatti, Fauno potrebbe essere stato il fondatore del culto di Giove Albano (precursore di quello di Giove Laziare) sul monte omonimo, ossia l’attuale Monte Cavo. Il nostro demone, era una presenza fissa nei boschi e nei luoghi selvaggi della prima cultura laziale, e ce lo immaginiamo senza dubbio aleggiare  nella selva che ricopre le pendici ed avvolge la via sacra. Ecco che quelle lastre di pietra riportano in vita il tempo mitico e ancestrale della storia del Lazio, quando realtà e leggenda erano inscindibilmente legati. Percorrere la strada, a piedi, fra i boschi sacri nella stessa direzione, sullo stesso identico percorso calcato all’alba della storia diviene una esperienza metatemporale e mitica.
Lentamente, ad ampi risvolti ed ancheggiando lungo i fianchi del sacro monte, la via ci conduce verso la cima del monte, la meta del pellegrinaggio, il luogo nel quale, in un tempo a noi lontano, sorgeva il bosco sacro a Giove; mai come in questo caso, però, il senso del viaggio è il viaggio stesso più che il fine, visto che ad un’esperienza intensa come quella dell’immersione totale nella storia e nella natura che il percorso antico regala, segue, all’arrivo, una delusione pari per intensità, se non si è preparati a vedere la selva di tralicci ed immense antenne che svettano sulla cima di Monte Cavo, peraltro visibili da grandissima distanza. Un vero peccato che la suggestione di questi luoghi si perda nella brutta vista di questi giganti metallici, ma d’altronde l’uomo ha oggi altre esigenze, che è necessario imparare a conciliare, senza derive talebane in un senso o nell’altro. In questo discorso, le antenne, che sono in gran parte strutture militari e che sembrano sinceramente abbandonate a loro stesse, regalando al camminatore che arriva l’idea di uno scenario apocalittico post atomico e l’ingloriosa fine del tracciato dell’antichissima strada all’interno di una specie di galleria sono, da un certo punto di vista e paradossalmente, meno deprimenti dell’accorato appello che le amministrazioni sono state evidentemente costrette a  scrivere sui secchi della spazzatura al fine di sponsorizzarne l’utilizzo in un luogo dalla bellezza mozzafiato, con la spiegazione, che dovrebbe essere quanto meno scontata (ed evidentemente non lo è), di quanto un luogo come quello meriti la cura e l’attenzione da parte di tutti. Che le ragioni del progresso siano a volte poco sensibili ai temi a noi cari quali ecologia e conservazione di aree storicamente e simbolicamente importanti è un dato di fatto (e questo è stato soprattutto vero in passato), ma altrettanto vero è che prima di tutto è nostra la responsabilità di mantenere viva la nostra storia e sostenibile il godimento degli angoli incontaminati e carichi di significato, che sia per una passeggiata  per un’uscita in mountain bike, o semplicemente per osservare il panorama dalla vetta.

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