La Via Sacra, la storia e il mito
Il Monte Cavo domina tutti i
rilievi dei castelli, forte dei suoi 949 m. Da sempre questo luogo ha
un’importanza essenziale nell’area per la sua visibilità da grandi distanze e
per la sua centralità nell’ambito della zona di riferimento. Proprio queste
caratteristiche ne hanno fatto uno di quei luoghi oggetto di meraviglia e
venerazione sin dalla più antica età dell’uomo.
All’epoca in cui Roma non era
ancora saldamente padrona del Lazio ed in cui la formidabile Alba Longa le
contendeva il primato assoluto di metropoli, anzi, in quanto città principale
della lega latina, proprio Alba primeggiava in queste vallate selvagge e
boschive, il Mons Albanus, come
veniva chiamato, era sede non soltanto del culto più importante di tutta la
regione, quello di Giove Laziare, ma, proprio per questo motivo, anche luogo di
incontro e di rito per tutti i popoli dell’area. Proprio su questa sommità,
infatti, si svolgeva il rito di ancestrale di conferma dell’alleanza tra tutti
i popoli latini federati che aveva il nome di Feriae Latinae, durante il quale veniva sacrificato un esemplare di
toro bianco i cui pezzi venivano suddivisi tra i rappresentanti di tutti i
popoli confederati. Un rito, quindi, antichissimo e che aveva una valenza tanto
religiosa quanto politica. A seguito dell’imporsi della potenza di Roma, Monte
Cavo ed il suo santuario entrarono a far parte dell’orbita di influenza romana
ed il centro politico e di culto della resistenza latina passò al santuario di
Diana Nemorense. La sommità del monte accoglieva, probabilmente un abitato
chiamato Cabe o Cabum, che, insieme al santuario ed al Monte erano considerati
sacri e neutrali.
Del tempio non è rimasto
assolutamente nulla, durante gli scavi eseguiti nel 1929 è stato portato alla
luce solamente qualche blocco squadrato e poco altro; possibile che di un
centro di culto così vitale non si sia conservata traccia? Probabilmente la
risposta sta nel fatto che non vi era nulla da conservare; Frazer a inizio
secolo aveva già ipotizzato che il tempio fosse da intendersi come un bosco di
querce. Più recentemente anche Carandini afferma che “non sapremmo immaginarci
il suo santuario di Giove se non come un nemus
sulla cima del monte nel quale sorgeva una grande quercia sacra, analogamente a
quella del Campidoglio, preceduta magari da una radura o lucus”. Un luogo simbolico, quindi che ben rappresenta la natura
selvaggia di questi luoghi in un tempo in cui la mano dell’uomo, gli sparsi
borghi, i templi extraurbani, le strade erano isole o piccoli arcipelaghi
isolati da un mare di verde cupo ed intenso.
Per giungere su questo luogo
mistico e carico di significato bisognava percorrere la Via Sacra, che
dall’antica via Appia, presso Ariccia, si staccava, costeggiando il lago di
Nemi e saliva serpeggiando nel bosco finno alla cima del monte. La strada,
ancora perfettamente conservata è ancora oggi sostanzialmente interamente
percorribile a piedi. Si tratta di una larga via selciata larga per tutta la
lunghezza 2,55 M e costeggiata da crepidines
in peperino. Il tracciato oggi rimasto, seppur molto più antico può essere
ricondotto sicuramente all’epoca del dominio di Roma, durante il quale il
santuario ed il percorso rituale per giungervi, pur avendo perso quella valenza
politica, rimase ancora molto a lungo un
centro religioso di grandissima importanza, forte di una spiritualità
che non aveva subito declino. Ancora oggi l’impatto emotivo che si vive
percorrendo l’antica via è notevole. La salita verso il monte si svolge in un
ambiente incontaminato che fa da contraltare al basolato romano. Tutto intorno,
il bosco fitto di querce, aceri, tigli, castagni, pungitopi, biancospini, avvolge il tracciato della strada, mentre
avanza tra squarci di panorama sui laghi, incastonati nella verde valle
laziale, che nulla ha perso, vista da qui su, della sua primitiva e selvaggia
bellezza.
Un viaggio che in realtà
parte dal periodo romano, che fu l’ultimo periodo di sistemazione del percorso,
ma che si perde molto più in dietro, veramente verso l’alba dei tempi, poiché Monte
Cavo, entra in gioco nella più remota mitologia dei popoli laziali, messo in
relazione con Fauno, mitico re e demone che si aggirava per le vallate dei
castelli prima ancora che gli dei romani come noi li conosciamo facessero la
loro comparsa. Fauno era considerato un “lupo sgozzatore”, ma anche protettore
della coltivazione degli alberi e dell’accensione del fuoco. Oltre a questi
compiti, Carandini, infatti, intravede da quel profondo passato un nesso
essenziale tra questo demone ed il monte; secondo l’archeologo, infatti, Fauno
potrebbe essere stato il fondatore del culto di Giove Albano (precursore di
quello di Giove Laziare) sul monte omonimo, ossia l’attuale Monte Cavo. Il
nostro demone, era una presenza fissa nei boschi e nei luoghi selvaggi della
prima cultura laziale, e ce lo immaginiamo senza dubbio aleggiare nella selva che ricopre le pendici ed avvolge
la via sacra. Ecco che quelle lastre di pietra riportano in vita il tempo
mitico e ancestrale della storia del Lazio, quando realtà e leggenda erano
inscindibilmente legati. Percorrere la strada, a piedi, fra i boschi sacri
nella stessa direzione, sullo stesso identico percorso calcato all’alba della
storia diviene una esperienza metatemporale e mitica.
Lentamente, ad ampi risvolti
ed ancheggiando lungo i fianchi del sacro monte, la via ci conduce verso la
cima del monte, la meta del pellegrinaggio, il luogo nel quale, in un tempo a
noi lontano, sorgeva il bosco sacro a Giove; mai come in questo caso, però, il
senso del viaggio è il viaggio stesso più che il fine, visto che ad
un’esperienza intensa come quella dell’immersione totale nella storia e nella
natura che il percorso antico regala, segue, all’arrivo, una delusione pari per
intensità, se non si è preparati a vedere la selva di tralicci ed immense
antenne che svettano sulla cima di Monte Cavo, peraltro visibili da grandissima
distanza. Un vero peccato che la suggestione di questi luoghi si perda nella brutta
vista di questi giganti metallici, ma d’altronde l’uomo ha oggi altre esigenze,
che è necessario imparare a conciliare, senza derive talebane in un senso o
nell’altro. In questo discorso, le antenne, che sono in gran parte strutture
militari e che sembrano sinceramente abbandonate a loro stesse, regalando al
camminatore che arriva l’idea di uno scenario apocalittico post atomico e
l’ingloriosa fine del tracciato dell’antichissima strada all’interno di una
specie di galleria sono, da un certo punto di vista e paradossalmente, meno
deprimenti dell’accorato appello che le amministrazioni sono state
evidentemente costrette a scrivere sui
secchi della spazzatura al fine di sponsorizzarne l’utilizzo in un luogo dalla
bellezza mozzafiato, con la spiegazione, che dovrebbe essere quanto meno
scontata (ed evidentemente non lo è), di quanto un luogo come quello meriti la
cura e l’attenzione da parte di tutti. Che le ragioni del progresso siano a
volte poco sensibili ai temi a noi cari quali ecologia e conservazione di aree
storicamente e simbolicamente importanti è un dato di fatto (e questo è stato soprattutto
vero in passato), ma altrettanto vero è che prima di tutto è nostra la
responsabilità di mantenere viva la nostra storia e sostenibile il godimento degli
angoli incontaminati e carichi di significato, che sia per una passeggiata per un’uscita in mountain bike, o
semplicemente per osservare il panorama dalla vetta.
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