martedì 28 gennaio 2020







Nella Foresta Pluviale - [Australia]

L’unico modo di attraversare il Deintree River, punto di accesso alla regione, è un traghetto per automobili. Qui giungiamo di sera tardi a bordo dell’autovettura noleggiata il giorno prima; piove e siamo stanchissimi per gli spostamenti aerei e l’avventura passata su Lady Musgrave. Attraverso la fitta umidità dell’aria intravedo delle luci posteriori poco avanti, ci accodiamo. Nell’oscurità totale avvertiamo un rumore poco distante, una cerata arancione staziona fuori dal finestrino. A vestire la sgargiante divisa è, come in ogni film dell’orrore che si rispetti, un tipo strano, alto, allampanato, magro con i tratti scavati, capelli biondo paglia. Biascica qualcosa, poi allunga un foglio nell’abitacolo. E’ l’uomo del traghetto e viene a chiedere il pedaggio. Chissà perché penso istintivamente a Caronte. Capisce che siamo stranieri, ci chiede di attendere e poco dopo torna con un foglietto in mano: è una mappa del Deintree National Park; su due piedi trovo strana quella premura. Sarà la nostra salvezza. In tutta l’area tra il Deintree River e Capo York non c’è corrente elettrica, non ci sono fognature, non c’è campo per i cellulari, ma solo una distesa prepotente di foresta pluviale primaria, probabilmente la più antica d’Australia, interrotta qui e là da qualche villaggio e pochi insediamenti. Senza quella mappa, di notte con la pioggia non avremmo mai trovato il capanno ai margini della foresta che ci ha ospitato.
Siamo qui per immergerci in questa foresta primordiale, enorme e viva. Con pulsante meraviglia ci avviciniamo alla pulsante essenza di questo immenso essere vivente. Il sentiero Jindalba si biforca quasi subito; da una parte una comoda passeggiata su una passerella di legno, dall’altra andiamo noi, per un sentiero appena tracciato che si immerge per un’ora e mezzo di cammino nel cuore della vegetazione. Avanziamo estasiati sotto una volta  ad arcate altissima di verde smeraldo, di una lucentezza così vivida da sembrare innaturale, sotto di noi si stende un pavimento di radici intrecciate. L’ormai consueto concerto di uccelli tropicali ci segue durante il tragitto. Incontriamo un gran numero di tacchini selvatici dal corpo nero e capo rosso, incuranti del nostro passaggio e per nulla spaventati dalla nostra presenza. Mentre commentiamo il tripudio di vita che ci gira intorno, una sagoma nera attraversa a tutta velocità il sentiero a due metri da noi, troppo rapido per poterlo mettere a fuoco. Ne cogliamo solamente le scure setole con la coda dell’occhio ed un sommesso grugnito: un maiale selvatico. Le piante assumono forme di enormi ombrelli. Oltrepassiamo numerosi torrenti in secca che la stagione delle piogge si è lasciata alle spalle, come segni del recente passaggio. Giganteschi tronchi salgono al cielo. Cattedrale di mangrovie infinite rendono omaggio a questa natura primitiva e selvaggia, dove ogni cosa, per dimensioni e forme appare nuova ai nostri occhi europei. Intorno al sentiero le radici di questi alberi superbi, a volte più alte di noi, creano figure quasi sinistre di tentacoli giganti, ci sentiamo piccoli.
Le mangrovie sono una vista quasi onnipresente, ricoprono le rive del Cooper Creek, fiume dalle acque limacciose che navighiamo qualche tempo dopo. Uccelli si involano a pelo d’acqua, partendo dai rami più bassi. E’ pomeriggio. Improvvisamente la barca rimane immobile proprio nel mezzo del fiume. Un silenzio irreale cala tra le mangrovie; solamente un fischio penetrante echeggia con brevi pause e un tono ascendente da chissà dove. L’umidità flagella i nostri corpi sudati. Di nuovo il fischio, nel silenzio assoluto rende l’atmosfera carica di tensione, in una scena degna di Apocalypse Now. D’un tratto un sommesso sciabordio a una decina di metri dall’imbarcazione cattura la nostra attenzione, ci voltiamo appena in tempo per vedere un mostruoso coccodrillo scattare aprendo e serrando le fauci su un uccello di fiume. Poi più nulla e di nuovo silenzio. Senza scampo la vittima sarà stata trascinata in un luogo appartato per essere finita.
Questa è la foresta, meravigliosa e senza pietà, la lotta per la sopravvivenza spietata, eppure il suo fascino è ipnotico e chiunque vi sia stato desidera tornarci. Un luogo che per noi, abituati alla civiltà antropizzata da cui veniamo sembra smisuratamente pieno di pericoli, estraneo e indecifrabile e che comunque risveglia istintivamente un’attrazione che ha il sapore di casa. Una casa che abbiamo perduto per sempre.

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