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Tra Giungle e Pagode - Giuseppe Tucci
[Nepal] - II parte
Entriamo
nella guest House, un odore penetrante misto di fumo, cucinato e chissà
cos’altro ci assale; è il secondo giorno di cammino e siamo giunti a Samar, che
Tucci mirabilmente descrive come poche
case appollaiate in una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate dalle
rovine di templi e castella. Qui poche case significa letteralmente sei o
sette case, costruite in pietra. Le più grandi da quando è arrivato il turismo,
si sono convertite in una specie di alberghi per viandanti, sono costituite da
una corte centrale e da un numero variabile di stanze che vi si affacciano,
ormai siamo abituati a quanto questi luoghi possano essere spartani. Raramente
troviamo acqua calda, qualche volta neanche l’acqua corrente. I bagni sono per
lo più buchi nel pavimento di terra battuta, con il secchio e un mestolo come
scarico. Ma stavolta dobbiamo adattarci ulteriormente, non ci sono posti nelle
stanze riservate ai viaggiatori, ci sistemano in quelle destinate ai portatori,
con letti duri e bagno nell’orto. Ci laviamo in un ruscello che canta
cristallino e freddo nell’orto; l’alternativa è una sorta di fontanile comune
nell’atrio. Una specie di vittoria dell’essenzialità prende il sopravvento. Qui
non ci sono comodità che abbiano senso. Gustiamo affamati il nostro Dal Bhat,
piatto unico composto da riso, verdure e, nei momenti migliori un po’ di carne.
Ogni giorno. Sono i gesti, i sorrisi, i bambini che ti guardano stupiti mentre
mangi ciò che crea il pasto. Momento di riposo, di confronto, di conoscenza
intriso di sacralità e spensieratezza. In quest’ottica cosa importa se hai
appena visto le tue verdure cucinate per terra in condizioni igieniche tali da
creare scene di panico generali in qualunque ASL dell’occidente? O se fuori
dalla casa tibetana in cui sei arrivato per pranzo pende attaccato ad un albero
la carcassa di un vitello appena scuoiato, mentre tu partecipi alla
preparazione dei momo su un pavimento tutto terra e polvere?
Ieri
ero rimasto un po’ deluso, arrivando al villaggio di Ghiling, Tucci aveva
acceso la mia fantasia descrivendola come intirizzita
sotto venti chiassosi e sparsa su vasti campi di orzo. Mandrie di yak pascolano
lente; nomadi tibetani scesi con interminabile cammino dai confini della Cina,
con lo spadone infilato alla cintola, la
zazzera incolta, avvolti in pesanti casacche di lana e di pelle hanno l’aspetto
di briganti; indocili ed irrequieti sono i liberi padroni dei vasti silenzi del
tetto del mondo. Non mancano i venti chiassosi, né l’intirizzimento, ma i
nomadi con lo spadone? Niente. Almeno qualche Yak. Nemmeno l’ombra; così,
depresso il paese mi era sembrato ancora più misero degli altri. E’ mattina
presto e ci attende una giornata di duro cammino per giungere a Dakmhar. Ci
inerpichiamo per le viuzze del villaggio, che come tutti sembra costantemente
appena uscito da un bombardamento e raggiungiamo un monastero dove un vecchio
monaco ci introduce. I sette Buddha ci guardano pietrificati nelle posizioni
ieratiche, contornati da affreschi di ulteriori mille Buddha. Un potente odore
di incenso ci assale. Sembra un edificio
antichissimo, anche Tucci, il nostro ideale compagno di viaggio annota che il
documento di fondazione del monastero ha un grande valore storico. Saliamo ancora,
arroccato al culmine del paese si erge un altro piccolo monastero. Nell’aria si
sparge un canto melodioso e profondo, accompagnato ritmicamente da una
percussione che parla di infinito. L’accesso è precluso alle donne, Valeria
rimane fuori ad attenderci, io e Si Ta entriamo. Un giovanissimo monaco
interrompe il canto del Mantra e ci accoglie. All’ingresso una stufa di terra
battuta ed un giaciglio di paglia. E’ l’alloggio del monaco, la parte
residenziale. Il suo sorriso timido e la gioia negli occhi superano ogni questione
di traduzione linguistica tibetano – nepalese – inglese – italiano. E’ contento
di avere visite. Dai muri del luogo sacro, mi guarda fisso un esercito di
esseri mostruosi dipinti con i colori sgargianti che solo l’arte orientale
riesce a fondere con risultati così drammatici. Sono i numi tutelari della
zona, costoro sono divinità feroci
nell’aspetto, irascibili ed aggressive, siccome il loro compito è combattere
con i demoni, mi suggerisce Tucci all’orecchio. Tra di loro spicca Makala,
che avevamo già incontrato in numerosi monasteri, terribile e violento appare
ornato con una corona di teschi ed una cintura di teste. Sono i demoni che ha
ucciso, mi conferma il giovane monaco. Sarà lui il nostro protettore durante
questo viaggio. Neanche il tempo di varcare la porta ed il canto ricomincia
soave, stavolta inframmezzato da uno strumento a fiato e si spande lontano,
verso i silenzi dei monti dove anche noi siamo diretti.
Superiamo
un passo a 4025 metri, poi scendiamo verso Ghemi, tappa di metà giornata.
Giungiamo in una valle desolata che sale ripida circondata da immense muraglie
rocciose. Proprio nel mezzo di questo assoluto vuoto una lunga costruzione
rossiccia ornata da una fila interminabile di ruote di preghiera. Cos’è? –
domando – il più lungo Mani del Mustang, risponde orgoglioso Si Ta. I muri di
preghiera sono abbastanza comuni in questa zona, i fedeli li percorrono
tutt’intorno facendo ruotare i cilindri che riportano una mantra, così, la
preghiera, oltre al valore della parola, assume anche una potenzialità
meccanica, muovendo le frasi scritte, mettendole in moto, per così dire esse
salgono e si spargono nell’ambiente circostante fino al cielo. E’ affascinante
credere che anche il movimento fisico della formula sacra partecipi, in qualche
modo all’efficacia della preghiera. Camminiamo ancora attraverso la vasta valle
delimitata da alte montagne e da un profondo Canion scavato dal fiume. Il
sentiero si snoda quasi sul bordo del baratro. In lontananza una sagoma
indistinta si staglia nel mezzo della piana. Cos’è? Neanche Si Ta mi sa dare una
risposta, non era mai venuto in questa zona. Quando la distanza lo permette, ci
appare, in tutta la sua magia un complesso di Chorten di enormi dimensioni. Una
grande costruzione centrale è contornata da altre piccole cappelle. E’
antichissimo e lo stato di abbandono rende ancora più magnificente quella
visione spuntata dal nulla, nel bel mezzo del nulla. Qualche metro più in la la
terra sprofonda per centinaia di metri dentro il letto del fiume. In contrasto
con la terra arida e chiara, grandi pietre nere sono inframmezzate alle
costruzioni. Una è piantata in terra e sembra una oscura stele di grafite. Un
edificio sacro raramente è costruito a caso ed il luogo è sempre sacro prima di
qualunque edificio sia posto su di esso. Questo posto emana un’energia che la
sua fatiscenza probabilmente aumenta, ma mi piace immaginare che il luogo delle
pietre nere fosse venerato prima che l’uomo imparasse a costruire chorten.
Anche qui, come in molte parti del mondo riti e religioni, usanze e
superstizioni si sono stratificate in un misto di antico e vecchio, di credo
“alto” e religione popolare, legata indissolubilmente a questo ambiente.
E’
la fine del quinto giorno di cammino. Dopo aver doppiato un nuovo passo a quota
4280 metri, e sette ore di cammino il nostro piccolo drappello si affaccia
dall’alto di un bastione roccioso. A tratti di nuovo ci siamo ritrovati a
ridosso della strada in costruzione, con tutto il suo carico di jeep, polvere e
fantasmi imbiancati che lavorano lenti e disperati. Sotto si stende una piatta,
desertica valle. Immediatamente la vista vola verso le rosse mura che in
lontananza ci presentano la magica città di Lo – Manthang, meta del nostro
viaggio. Ci aspettiamo probabilmente una città, invece Lo – Manthang non è
diversa da tutti i villaggi sperduti che abbiamo incontrato, solo un po’ più
grande e molto più frequentata dalle jeep che attraverso la pista portano
rifornimenti e generi tendenzialmente di lusso. Sicuramente un tempo doveva
apparire diversa, se non nell’aspetto, almeno nella carica emotiva, quando
guardandola, probabilmente dalla nostra stessa posizione Tucci sognante notava:
trema sotto i venti che ruzzolano ringhiosi dai ghiacciai: cinta all’intorno da mura e vigilata da torri con un’unica porta che si
chiude al calar della notte, è apprestata come una fortezza a difendersi dalle
scorribande dei predoni che di quando in quando straripano per i sentieri ormai
larghi e lievi dai pianori del Tibet occidentale. Ormai non ci sono più
predoni dai quali difendersi e nessuno chiude più la porta. A vigilare
sull’accesso una pietra con scritta sbiadita di una nota marca italiana di
caffè. Le strade sono polverose e fangose, affiancate da fogne a cielo aperto,
ma ci sono bar, locande, empori e botteghe in cui artisti vendono riproduzioni
di affreschi dei monasteri, immagini sacre e mandala.
Davanti
a noi sfilano vassoi ricolmi di pane tibetano e dolci. E’ una fredda mattinata
sferzata dal vento, mentre ci togliamo le scarpe e varchiamo la soglia di uno
dei tre monasteri del paese. Di nuovo pesante odore di chiuso e incenso. Le
grandi statue di varie versioni di Buddah vigilano sulla sala. In silenzio ci
raggomitoliamo contro una parete in penombra. Due file di monaci siedono una di
fronte all’altra, verso l’altare i più anziani, poi via via fino agli ultimi
arrivati accomodati presso l’ingresso. Un canto gutturale e profondo inizia,
allora, nella sua baritonale imponenza. Immobili i vecchi, mentre i giovani
ciondolano ritmicamente presi nelle spire obnubilanti della cantilena. Anche
noi siamo presi nel vortice, storditi dall’incenso e dalla melodia e come
ipnotizzati seguiamo la cerimonia. E’ un pasto rituale e terminerà con la
consumazione delle vivande. Un giovane monaco che ha appena terminato la
funzione si offre di farci da guida negli altri monasteri, che non sono in
funzione. Mentre camminiamo per il paese ci chiede la provenienza. Siamo
Italiani, rispondiamo, si accende in volto e ci informa che nel terzo monastero
c’è un nostro connazionale. E’ un artista, chiosa.
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