Nella Foresta Pluviale - [Australia]
L’unico
modo di attraversare il Deintree River, punto di accesso alla regione, è un
traghetto per automobili. Qui giungiamo di sera tardi a bordo dell’autovettura
noleggiata il giorno prima; piove e siamo stanchissimi per gli spostamenti
aerei e l’avventura passata su Lady Musgrave. Attraverso la fitta umidità
dell’aria intravedo delle luci posteriori poco avanti, ci accodiamo.
Nell’oscurità totale avvertiamo un rumore poco distante, una cerata arancione
staziona fuori dal finestrino. A vestire la sgargiante divisa è, come in ogni
film dell’orrore che si rispetti, un tipo strano, alto, allampanato, magro con
i tratti scavati, capelli biondo paglia. Biascica qualcosa, poi allunga un
foglio nell’abitacolo. E’ l’uomo del traghetto e viene a chiedere il pedaggio.
Chissà perché penso istintivamente a Caronte. Capisce che siamo stranieri, ci
chiede di attendere e poco dopo torna con un foglietto in mano: è una mappa del
Deintree National Park; su due piedi trovo strana quella premura. Sarà la
nostra salvezza. In tutta l’area tra il Deintree River e Capo York non c’è
corrente elettrica, non ci sono fognature, non c’è campo per i cellulari, ma
solo una distesa prepotente di foresta pluviale primaria, probabilmente la più
antica d’Australia, interrotta qui e là da qualche villaggio e pochi
insediamenti. Senza quella mappa, di notte con la pioggia non avremmo mai
trovato il capanno ai margini della foresta che ci ha ospitato.
Siamo
qui per immergerci in questa foresta primordiale, enorme e viva. Con pulsante
meraviglia ci avviciniamo alla pulsante essenza di questo immenso essere
vivente. Il sentiero Jindalba si biforca quasi subito; da una parte una comoda
passeggiata su una passerella di legno, dall’altra andiamo noi, per un sentiero
appena tracciato che si immerge per un’ora e mezzo di cammino nel cuore della
vegetazione. Avanziamo estasiati sotto una volta ad arcate altissima di verde smeraldo, di una
lucentezza così vivida da sembrare innaturale, sotto di noi si stende un
pavimento di radici intrecciate. L’ormai consueto concerto di uccelli tropicali
ci segue durante il tragitto. Incontriamo un gran numero di tacchini selvatici
dal corpo nero e capo rosso, incuranti del nostro passaggio e per nulla
spaventati dalla nostra presenza. Mentre commentiamo il tripudio di vita che ci
gira intorno, una sagoma nera attraversa a tutta velocità il sentiero a due
metri da noi, troppo rapido per poterlo mettere a fuoco. Ne cogliamo solamente
le scure setole con la coda dell’occhio ed un sommesso grugnito: un maiale
selvatico. Le piante assumono forme di enormi ombrelli. Oltrepassiamo numerosi
torrenti in secca che la stagione delle piogge si è lasciata alle spalle, come
segni del recente passaggio. Giganteschi tronchi salgono al cielo. Cattedrale
di mangrovie infinite rendono omaggio a questa natura primitiva e selvaggia,
dove ogni cosa, per dimensioni e forme appare nuova ai nostri occhi europei.
Intorno al sentiero le radici di questi alberi superbi, a volte più alte di
noi, creano figure quasi sinistre di tentacoli giganti, ci sentiamo piccoli.
Le
mangrovie sono una vista quasi onnipresente, ricoprono le rive del Cooper
Creek, fiume dalle acque limacciose che navighiamo qualche tempo dopo. Uccelli
si involano a pelo d’acqua, partendo dai rami più bassi. E’ pomeriggio.
Improvvisamente la barca rimane immobile proprio nel mezzo del fiume. Un
silenzio irreale cala tra le mangrovie; solamente un fischio penetrante
echeggia con brevi pause e un tono ascendente da chissà dove. L’umidità
flagella i nostri corpi sudati. Di nuovo il fischio, nel silenzio assoluto
rende l’atmosfera carica di tensione, in una scena degna di Apocalypse Now.
D’un tratto un sommesso sciabordio a una decina di metri dall’imbarcazione
cattura la nostra attenzione, ci voltiamo appena in tempo per vedere un
mostruoso coccodrillo scattare aprendo e serrando le fauci su un uccello di
fiume. Poi più nulla e di nuovo silenzio. Senza scampo la vittima sarà stata
trascinata in un luogo appartato per essere finita.
Questa è la foresta,
meravigliosa e senza pietà, la lotta per la sopravvivenza spietata, eppure il
suo fascino è ipnotico e chiunque vi sia stato desidera tornarci. Un luogo che
per noi, abituati alla civiltà antropizzata da cui veniamo sembra
smisuratamente pieno di pericoli, estraneo e indecifrabile e che comunque
risveglia istintivamente un’attrazione che ha il sapore di casa. Una casa che
abbiamo perduto per sempre.